In uno studio condotto circa una decina d’anni fa da alcuni ricercatori danesi, consistito nella minuziosa analisi di un metro cubo di terreno fertile, è emerso che esso contiene circa cinquantamila macrorganismi (tra insetti di vario genere). Un singolo grammo di tale terra contiene all’incirca trentamila protozoi, cinquantamila alghe, quattrocentomila funghi e ben un miliardo di batteri (ripartiti tra dieci/centomila differenti specie, di cui la maggior parte risulta ancora sconosciuta all’uomo. Una nuova stima, eseguita nel 2016, indica in mille miliardi le specie di batteri presenti sul nostro pianeta; di cui l’uomo ne conosce solo lo 0,001%!). Ogni specie si sviluppa grazie ad un’interazione permanente con altre specie. Quando una specie scompare, tutti i legami interattivi fino a quel punto mantenuti con altre specie, contribuiranno a compensare la sua perdita. A causa della sua natura biologica, ovviamente l’intera umanità risulta essere del tutto dipendente dal tessuto vivente del suo pianeta.

Nel momento in cui un essere umano è tenuto a definire la propria identità, dunque, ad un’attenta analisi della sua totalità costitutiva, si accorge inesorabilmente che il concetto di essere “unico ed inalterabile”, viene meno. L’uomo infatti rappresenta, nel suo insieme, un raggruppamento costituito da una moltitudine di varie specie, che convivono tutte assieme nella più perfetta delle collaborazioni. La vita di un essere umano funziona grazie a decine di migliaia di esseri microscopici, che vivono sopra e dentro al suo corpo.

Il microbioma umano è composto da circa cinquemila specie di batteri, che catalogano oltre 154’000 genomi; ogni individuo possiede fino a diverse centinaia di queste specie, che fino all’inizio del 2019, erano per il 77% del loro totale, del tutto sconosciute! (E.Pasolli, F.Asnicar, S.Manara, C.Quince, C.Huttenhower, N.Segata; 2019. Confr.: http://www.cell.com/cell/fulltext/S0092-8674(19)30001-7). Senza tali microrganismi, l’uomo non potrebbe sopravvivere!

Per quanto possa essere “pulita”, tutta la superficie della pelle di un individuo sano qualsiasi, è coperta da un “tappeto” di “batteri buoni”, che agiscono come una barriera protettrice contro le infezioni (stimolando il nostro sistema immunitario e innescando una naturale risposta fisiologica contro gli agenti nocivi esterni); si tratta del cosiddetto microbiota cutaneo, costituito da oltre cinquecento specie di batteri! L’odore corporale di un essere umano, individuale e personale, altro non è che quello generato dal miscuglio dei suoi particolari batteri (senza i quali il nostro corpo non emanerebbe alcun odore, sia sgradevole che piacevole!).

La maggior parte dei batteri dimora nel tratto intestinale. All’interno del corpo umano, il miscuglio di batteri intestinali (il cui compito è quello di consentire la digestione del cibo ingerito), caratterizza l’identità biologica di ogni individuo. Tuttavia, proprio la digestione, influenza lo stato di salute generale di ogni essere umano; essa infatti, come un “secondo cervello”, caratterizza i suoi comportamenti, i suoi stati d’animo, nonché i suoi gusti e la sua personalità. I suoi effetti, sono dunque di natura fisica, psichica e biologica. In un uomo “medio” (20-30 anni di età, 1,70 m di altezza per 70 kg di peso), ci sono circa 30 trilioni di cellule e 39 trilioni di batteri! (R.Milo, R.Sender, S.Fuchs; 2016. Confr.: http://www.biorxiv.org/content/10.1101/036103v1).

Tuttavia, anche le cellule del corpo umano, non si possono definire “puramente umane”. Infatti, durante il corso della nostra evoluzione, dei batteri sono stati integrati, “addomesticati” e “naturalizzati”, affinché non lasciassero più l’intimità delle cellule umane, divenendo in tal modo essenziali per il loro funzionamento.

Scendendo in profondità a scale ancora più ridotte, troviamo i cromosomi; delle lunghe molecole di DNA e proteine associate, in cui si trovano le loro unità funzionali: i geni. Fin dalla notte dei tempi, l’uomo ha regolarmente incorporato nel suo genoma, centinaia di geni “estranei”. In totale, si tratta di più di centomila frammenti di virus, che vanno a costituire circa l’8% dell’intero genoma umano; in pratica quindi, circa l’8% del nostro DNA, è di origine virale! Si tratta di virus endogeni (resti di antiche battaglie tra il sistema immunitario dei nostri antenati e i virus patogeni presenti nei vari periodi storici in cui hanno vissuto; sequenze genetiche che testimoniano infezioni avvenute cento milioni di anni fa), che l’evoluzione umana, in alcuni casi, ha trasformato in vere e proprie armi contro gli attuali virus moderni. Questi frammenti di DNA virale (incorporati nel nostro genoma), regolano dei geni che sono parte integrante del nostro sistema immunitario innato. Ma la cosa più sorprendente è che, nel momento in cui questi frammenti virali vengono rimossi sperimentalmente, l’intero sistema immunitario ne risente e si paralizza! (E.B. Chuong, N.C. Elde, C.Feschotte;2016.Confr.:http://science.sciencemag.org/content/351/6277/1083). Questi “virus fossili” sono ospiti fissi del genoma umano e di quello di moltissime specie di mammiferi. In uno studio di circa dieci anni fa su questi virus fossili, sono state rilevate tracce di ben dieci famiglie di virus differenti; tra cui lontani parenti del virus Ebola e di quello dell’epatite B. Alcune di tali famiglie di virus, sono riuscite ad integrare (in un dato momento dell’evoluzione) il proprio materiale genetico nel DNA delle cellule germinali della specie che hanno infettato, permettendo così ai geni virali di essere trasmessi di generazione in generazione fino ad oggi. (A. Katzourakis, R.J. Gifford; 2010. Confr.: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21124940).

L’essere umano quindi, nella sua integrità, altro non è che il risultato di una perfetta collaborazione intra ed interspecifica tra microrganismi di ogni genere. Tutti gli esseri viventi sono organizzati secondo una gerarchia di livelli (molecole, cellule, organismi, popolazioni, ecosistemi) all’interno dei quali si stabilisce una fitta rete di interazioni che concorrono a determinare l’adattamento del livello superiore. Tuttavia, solo certe combinazioni di interazioni sono possibili e compatibili con la vita e fra le combinazioni possibili in ogni dato momento storico e in ogni ambiente, alcune sono capaci di riprodursi più di altre. In sintesi quindi gli esseri viventi potrebbero essere definiti come sistemi aperti e interattivi, capaci di dare ordine utilizzando energia secondo programmi variabili e quindi di riprodursi adattandosi; ovvero modellandosi secondo le esigenze ambientali e temporali. Secondo il biologo e genetista americano Richard Charles Lewontin: “Esiste, e già da molto tempo, un’ampia serie di prove a dimostrazione del fatto che l’ontogenesi di un organismo è la conseguenza di un’interazione unica tra i geni di cui è portatore, la sequenza di ambienti esterni con cui entra in contatto nella sua vita e le interazioni molecolari casuali all’interno delle singole cellule. È di queste interazioni che va tenuto conto, per spiegare come si forma un organismo”.

Nel regno vegetale soprattutto (ma anche in quello animale), quelle leggi della natura che mettono in relazione il fenotipo di organismi di un particolare genotipo con l’ambiente, sono dette norme di reazione. Un modello di reazione è la mappatura dell’ambiente in fenotipi, caratteristica di una particolare conformazione genetica. Quindi un genotipo non dà luogo a un unico tipo di sviluppo, ma a una norma di reazione; ovvero a uno schema di diversi tipi di sviluppo in ambienti diversi. Se prendiamo ad esempio in considerazione la Drosophila melanogaster (il comune “moscerino della frutta”), notiamo che, per ceppi genetici diversi (isolati dalle popolazioni naturali di tale insetto), messi a confronto in ambienti diversi, senza specificare le temperature che la specie incontrerà nel corso della sua evoluzione, risulta impossibile prevedere quale genotipo risulterebbe favorito dalla selezione naturale, a causa delle sue maggiori probabilità di sopravvivere. Tra gene e ambiente si verificano interazioni uniche tali che l’ordinamento dei fenotipi non trova corrispondenza in alcun ordinamento separato a priori, di genotipi o di ambienti.

Come forma di vita terrestre, quella umana è sicuramente una delle più fragili. Se pensiamo ad esempio al tardigrado, un piccolo organismo eutelico (ovvero con un numero costante di cellule durante tutto il suo percorso di vita)  le cui dimensioni lineari variano da meno di 0,1 mm fino a circa 1,5 mm, esso è in grado di sopravvivere quasi un decennio in condizioni di totale mancanza d’acqua (disidratazione), di resistere per molti giorni a temperature estremamente basse (fino a meno duecento gradi Celsius) come pure per qualche minuto a temperature estremamente alte (fino a 151°C). Essi sembrano inoltre indifferenti alle radiazioni ionizzanti (anche a dosaggi iper elevati, di cui una piccola percentuale, sarebbe già letale per un essere umano!); uno studio di pochi anni fa (2016) condotto da alcuni ricercatori dell’Università di San Diego (UCSD), ha dimostrato che una proteina esclusiva di questi animali chiamata Dsup[1], è in grado di ridurre i danni da radiazioni sul DNA umano del 40%.  Questi minuscoli e ultra resistenti esseri viventi, possono persino sopravvivere nello spazio aperto, in mancanza di ossigeno e di tutti gli altri gas presenti nell’atmosfera terrestre (dunque anche in mancanza di una determinata pressione atmosferica; il fatto più sorprendente però, è che essi riescono a sopravvivere anche a pressioni estremamente elevate, maggiori di quelle presenti su diversi fondali marini).

Definire la specie umana come una forma di vita contraddistinta da una innata fragilità biologica, che fin dalla notte dei tempi accompagna il suo percorso evolutivo, è sicuramente una conclusione piuttosto evidente. Fortunatamente però, il nostro percorso evolutivo ci ha portati a sviluppare un’intelligenza tale da farci scoprire in che modo (grazie alle scienze biomediche in primis, ma anche alla psicologia) affrontare e combattere, tutti quegli agenti fisici e psicologici che minano la nostra salute sin dai primi giorni in cui veniamo alla luce. Il vero grande problema dell’uomo, oggi, non è quello di trovare il modo di restare in vita il più a lungo possibile (visto che statisticamente, la durata media della vita è aumentata costantemente negli ultimi duecento anni); bensì quello di capire come ridurre la velocità con cui si invecchia. Come giustamente ci ricorda il biochimico inglese Guy Brown: “La durata media di vita è aumentata perché abbiamo rimosso specifiche cause di morte, ma i processi molecolari di invecchiamento all’interno del corpo umano sono inesorabilmente continuati. Dato che l’aspettativa media di vita è cresciuta, ma la velocità di invecchiamento è rimasta invariata, stanno aumentando gli anni passati in uno stato di malattia e di dipendenza e le persone muoiono sempre più di ‘vecchiaia’. È stato calcolato che se ci liberassimo delle principali cause di morte odierne (malattie cardiovascolari, cancro e ictus), l’aspettativa di vita crescerebbe di soli quindici anni. Non siamo neppure sicuri di che cosa debbano morire gli anziani in assenza di malattie cardiovascolari, cancro e ictus. Il certificato di morte registra una qualche causa di morte prossima all’evento, come una polmonite, ma questa costituisce l’esecutore della morte, non il regista che si cela dietro di essa. La causa ultima è l’invecchiamento, ma fra causa ultima e causa prossima c’è in mezzo, verosimilmente, qualche disfunzione o qualche processo patologico specifico che conduce a una specifica forma di morte. Nel caso della polmonite, la ragione per cui l’anziano diventa suscettibile a un’infezione, che pochi anni prima avrebbe facilmente debellato, deve risiedere in una disfunzione polmonare o del sistema immunitario, o di qualche altro sistema che controlla quest’ultimo. Quando le persone vivranno più a lungo e pochi moriranno per cause conosciute, scopriremo inevitabilmente nuovi processi patologici associati all’invecchiamento avanzato, proprio come l’aumento della longevità ha già rivelato le malattie neurodegenerative”.

Concludo questo articolo accostandomi al pensiero di uno dei più autorevoli biologi e naturalisti contemporanei, Edward O. Wilson, che in uno dei suoi libri più fortunati (“The Social Conquest of Earth”, 2012), a proposito del futuro del sapere scientifico, si espresse così: “(…) i futurologi tendono a soffermarsi sulle strade che, a loro avviso, l’umanità dovrebbe imboccare. Ma data la vergognosa mancanza di auto-comprensione della nostra specie, l’obiettivo migliore al momento potrebbe essere quello di scegliere dove non andare. (…) L’umanità è una specie biologica in un mondo biologico. In ogni funzione del nostro corpo e della nostra mente e a ogni livello, siamo finemente adattati a vivere su questo particolare pianeta. Apparteniamo alla biosfera fin dalla nostra nascita. Pur essendo stati incensati in mille modi, restiamo una specie animale della fauna globale”.

Fausto Intilla, 16 febbraio 2020

[1] Questa proteina (Dsup – damage suppressor) si lega al materiale genetico all’interno di ciascuna cellula, per poi formare uno scudo protettivo che scherma il DNA dai radicali idrossili. Le radiazioni (come pure l’esposizione a sostanze chimiche altamente nocive) possono scindere le molecole d’acqua all’interno delle cellule e formare particelle patogene (radicali idrossili), in grado di danneggiare il DNA. La barriera protettiva creata dalla proteina Dsup, impedisce che ciò accada. Dalle notevoli proprietà di tale proteina, emerge dunque la capacità dei tardigradi di tollerare sostanze chimiche assai nocive che ucciderebbero qualsiasi altro essere vivente.