La sincronicità è un termine introdotto da Carl Jung nel 1950 per descrivere una connessione fra eventi, psichici o oggettivi, che avvengono in modo sincrono, cioè nello stesso tempo, e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una evidente comunanza di significato. La sincronicità è relativa quindi alle “coincidenze significative”. Fenomeni di “coincidenze significative” avevano da sempre affascinato Jung. Già nel 1916, a pochi anni di distanza dalla sua defezione dal gruppo dei psicoanalisti fedeli al metodo scientifico-oggettivante e a Sigmund Freud, scriveva dell’opportunità di affiancare al principio di causalità quello finalistico: «La causalità è solo un principio, e la psicologia non può venir esaurita soltanto con metodi causali, perché lo spirito (la psiche) vive ugualmente di fini».
Tali prime formulazioni di Jung sulla questione della sincronicità vennero in seguito approfondite attraverso il contatto con il pensiero filosofico orientale, oltre che con la riflessione su sorprendenti avvenimenti della sua stessa vita, sfuggenti ad ogni interpretazione razionale. Jung distingue la sincronicità vera e propria dal mero “sincronismo” degli eventi che accadono simultaneamente, ma senza alcuna connessione di significato. La vita di tutti i giorni ci propone spesso il tipo comune di sincronicità. Per esempio: pensiamo ad un amico, e lui improvvisamente ci telefona. Tuttavia accanto a queste ci sono anche misteriose sincronicità precognitive e chiaroveggenti.
Per tentare di spiegare questi fenomeni di sincronicità, Jung dapprima elaborò il concetto di “tempo qualitativo”. Il tempo qualitativo sembrava “spiegare” perché l’astrologia e altre forme di divinazione funzionavano. Jung tuttavia gradualmente abbandonò l’idea del tempo qualitativo. Negli anni trenta del Novecento la fisica fu scossa e rivoluzionata da nuove idee, il Principio di indeterminazione di Heisenberg postulava l’impossibilità di una conoscenza perfetta delle quantità fisiche inerenti ad un oggetto. Fino allora si concepiva che esistessero dei limiti pratici, dovuti alla naturale imprecisione degli strumenti di misura ma Werner Karl Heisenberg postulava un principio ideale. L’ipotesi era talmente rivoluzionaria ed inaccettabile da far pronunciare ad Albert Einstein la famosa affermazione che «Dio non gioca a dadi con l’Universo». Nella elaborazione epistemologica e teoretica successiva si è evidenziato che esiste un ambito, estremamente piccolo, indicativamente della dimensione di una particella elementare, in cui non sono valide le leggi della fisica classica, tale da far venir meno il principio di causa-effetto, almeno in questo ambito piccolissimo.
La casualità dei fenomeni radioattivi dipende da questo principio e consente idealmente di portare il paradosso della causalità dall’ambito infinitamente piccolo delle particelle all’ambito macroscopico del nostro mondo. Erwin Schrödinger elaborò un esperimento ideale, il Paradosso del gatto di Schrödinger, che divenne famoso ben oltre l’ambito della ricerca fisica. Queste rivoluzioni scardinarono il mondo della scienza più rigorosa e diedero origine alla fisica quantistica. Alla fine del 1934 iniziò un interessante scambio epistolare con il fisico quantistico futuro premio nobel Wolfgang Pauli e con Ernst Pascual Jordan, insigne fisico tedesco. Queste comunicazioni tra i tre scienziati testimoniano il fervore di Jung nell’indagine sul parallelismo tra fisica e psicologia del profondo e in particolare sulla relatività delle categorie di spazio e tempo. Alla fine del ventesimo secolo, con lo svilupparsi delle teorie e delle formule matematiche legate alla teoria delle superstringhe e della possibilità di definire in termini matematicamente chiari l’universo conosciuto come multiverso, si sono sviluppate in alcuni studiosi nuovi filoni di indagine fisica e meta-fisica sulla sincronicità di particolari eventi non spiegabili in termini psicologici o fisici naturali, che sono stati catalogati come “fenomeni diisocronicità nello spazio degli eventi“.
Jung non era nuovo alla tesi di un parallelismo tra scienza fisica e psicoanalisi: già nel 1928 in “Energetica psichica” aveva esaminato a fondo la contiguità tra fisica e psicologia postulando una stretta contiguità tra la nozione di energia nell’uno e nell’altro ramo del sapere. Le ricerche che Jung, al proposito, condusse negli anni a venire, rafforzarono in lui e non smentirono questo suo postulato ch’egli in quegli anni aveva intuito.
Negli anni trenta Jung incontra Wolfgang Pauli, un fisico austriaco premio Nobel nel 1945. Pauli è reduce dal fallimento del matrimonio e trasferitosi in Svizzera cerca un aiuto terapeutico. La terapia non avrà grande successo e Pauli l’abbandona ma i due si stimano ed iniziano una amicizia scientifica. L’incontro tra Jung e Pauli generò il quarto escluso dalla triade della fisica classica: tempo, spazio e causalità, a questo quarto escluso è stato dato il nome di sincronicità. In analogia alla causalità che agisce in direzione della progressione del tempo e mette in connessione due fenomeni che accadono nello stesso spazio in tempi diversi, viene ipotizzata l’esistenza di un principio che mette in connessione due fenomeni che accadono nello stesso tempo ma in spazi diversi.
Nel 1952 Jung e Pauli pubblicarono due saggi nel un volume Naturerklärung und Psyche: il saggio di Pauli applicava il concetto di archetipo alla costruzione delle teorie scientifiche di Keplero; il saggio di Jung era intitolato “Sincronicità come principio di nessi acausali”, dove per la prima volta lo piscologo definisce la parola. Per sue stesse parole, si era limitato per venti anni fino allora ad accennarne solamente il concetto, perché riteneva di essere scientificamente impreparato. Nel saggio si tenta una analisi statistica di eventi acausali ma senza grande successo. Lo stesso Jung è imbarazzato verso la comunità scientifica dell’indefinitezza del suo studio, ma tuttavia si sente pressato e giustificato dalle proprie esperienze personali che per lui sono da considerare evidenze empiriche, fenomenologie su cui lavorare con metodo scientifico. Nella prefazione del saggio dice: «[la sincronicità è ] … un tentativo di porre i termini del problema in modo che, se non tutti, almeno molti dei suoi aspetti e rapporti diventino visibili e, almeno spero, si apra una strada verso una regione ancora oscura, ma di grande importanza per quanto riguarda la nostra concezione del mondo».
Nel 1950, quando per la prima volta, ebbe il coraggio di definire un concetto sul quale da anni rifletteva, Jung aveva 75 anni, era il caposcuola della corrente di psicologia analitica, aveva ricevuto riconoscimenti ed onori in tutto il mondo. Aveva comunque affrontato numerose critiche relativamente alle sue pubblicazioni: «Jung accettò fraintendimenti e critiche dei suoi pensieri. Incrollabile andò per la sua strada. Se soffriva per l’incomprensione dei suoi contemporanei non era solo per il bisogno di risonanza positiva che ha il ricercatore, ma perché si preoccupava degli uomini, esposti agli incombenti pericoli del tempo» (Aniela Jaffé, C. G. Jung – immagine e parola)
Aveva anche affrontato momenti e critiche estremamente dure, il dissidio con Freud innanzi tutto, e poi l’accusa di vicinanza al regime nazista. Questo è il contesto in cui vanno inquadrate le critiche al concetto di sincronicità. Il principio di sincronicità è visto più comunemente come pseudoscientifico, tale è stato sicuramente utilizzato da altri dopo Jung, come se fosse un principio stabilito e provato. Una obiezione più attinente è sul fatto che le coincidenze significative non sono ben definite in modo da poter mettere alla prova, fare esperimenti, e verificare i risultati. Fino a che non si supera questo ostacolo il concetto è destinato a non entrare nella scienza moderna. Il concetto junghiano di sincronicità fu uno dei più apprezzati nel pensiero New Age degli anni sessanta. Jung divenne il guru della New Age e le sue idee furono usate per giustificare l’astrologia, l’I-Ching e altre pratiche “alternative”. Attualmente gli sviluppi di settori di avanguardia della fisica moderna, la meccanica quantistica, la nuovacosmologia, la teoria del caos, continuano a illuminare l’immaginazione con possibili concrete connessioni fra la fisica e la psiche e Jung ha il merito di aver gettato un ponte tra il mondo scientifico (la dimostrazione di teorie attraverso l’osservazione empirica e clinica) e il mondo della divinazione (il regno degli spiriti, i segni premonitori, l’immaginazione mitopoietica). Negli ultimi tempi anche la settima arte ha recepito nella sua maniera questa sorta di movimento di pensiero che delegittima la modalità interpretativa legata alla legge di causa-effetto sinora avallata dal pensiero scientifico classico. Una riprova sono i tentativi di alcuni registi di utilizzare la sincronicità come la più euristica chiave di lettura del movimento del reale. Tra questi ultimi possiamo citare le opere del famoso regista polacco Krzysztof Kieślowski.
Vi è un aneddoto che, scherzosamente, può essere visto come la prova lampante a sostegno della sincronicità. Nel XX secolo la fisica si divise sempre più nettamente in due branche distinte, la fisica teorica e la fisica sperimentale, la prima vicina alla matematica e alla speculazione mentre la seconda a diretto contatto con il laboratorio e rappresentando un po’ la parte manuale della scienza sperimentale. Inevitabilmente sorsero dei campanilismi tra le due fazioni per cui i fisici sperimentali apostrofavano i loro colleghi “più aristocratici” accusandoli di dedicarsi alla teoria a causa della scarsa manualità pratica che li rendeva inadatti al lavoro in laboratorio. Pauli era molto stimato come fisico teorico, ma i colleghi e amici sperimentali lo consideravano un vero problema. Non solo non gli permettevano di toccare gli strumenti per paura che li rompesse ma, addirittura Otto Stern gli proibì l’accesso ai laboratori durante l’esecuzione di esperimenti, questo perché la sua semplice presenza poteva causarne il fallimento. In suo “onore”, questo veniva chiamato pomposamente: l’effetto Pauli. Capitò che uno strumento particolarmente costoso e delicato si ruppe nel laboratorio di James Franck a Gottinga, raccontando la cosa ai colleghi di Zurigo scherzò dicendo che, almeno quella volta, la responsabilità non poteva essere di Pauli perché non c’era. Questi però gli ribatterono che recandosi a Copenaghen, esattamente quel giorno, Pauli era sceso alla stazione di Gottinga per cambiare treno.
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Il Paradigma Olografico
Il Paradigma Olografico, è un modello di realtà basato sulle teorie di David Bohm in campo fisico e sulle teorie di Karl Pribram nel campo della parapsicologia. Alain Aspect, nel 1982 osservò come alcune particelle subatomiche sottoposte a determinate condizioni entrassero in comunicazione tra loro in modo istantaneo, indipendentemente dalla loro distanza (nanometri come miliardi di Km), come se ognuna di loro, in qualsiasi momento e luogo dell’Universo sapesse cosa esattamente stanno facendo le altre. Ciò metterebbe in dubbio le teorie di Einstein, il quale sosteneva che nulla è in grado superare la velocità della luce (ciò provocherebbe una distorsione spazio-temporale). Da questo esperimento David Bohm ricavò le sue ipotesi: egli riteneva che le teorie di Einstein erano errate e che le particelle erano in contatto tra loro perché esse sono parte di un grande ologramma. Gli ologrammi sono figure (o pattern) d’onda interferenti ottenute tramite l’uso di un laser aventi la specificità di creare un effetto fotografico tridimensionale: essi a differenza delle normali fotografie ci mostrano una rappresentazione tridimensionale dell’oggetto proiettato. Ogni parte dell’ologramma, poi, contiene l’intera informazione: tagliando in due parti l’ologramma entrambe mostreranno sempre l’oggetto per intero, senza che nessuna informazione vada perduta.
Se la teoria di Bohm fosse esatta e l’universo si comportasse come un immenso ologramma allora ciò significherebbe che ogni singola particella che ne facesse parte conterrebbe tutto l’universo e tutte le informazioni che lo riguardano. In un universo del genere ogni teoria e postulato fin’ora considerato intoccabile verrebbe totalmente rivoluzionato il più delle volte diventando un paradosso. Basti pensare allo spazio e al tempo: se ogni particella contenesse tutto l’universo e tutte le sue informazioni allora essi perderebbero totalmente il senso che noi siamo abituati a dare loro, ogni luogo sarebbe tutto quanto insieme, il dove e il quando si mescolerebbero senza che passato, presente o futuro possano restare cose separate. Karl Pribram formulò dunque la sua ipotesi. In un universo olografico dove tutto contenesse tutto, allora anche la mente umana avrebbe la capacità di possedere ogni informazione sull’universo e non solo: essa potrebbe contenere un numero infinito di idee, contrariamente a quanto ipotizzato sinora (si riteneva che una persona mediamente nella sua vita può riportare solo 10 miliardi di informazioni).
Secondo il Dr. Richard Boylan, il Paradigma Olografico comporterebbe conseguenze che rivoluzionerebbero totalmente non solo il nostro modo di concepire la realtà, ma anche di interagire con essa. Se tutte queste ipotesi fossero reali, allora esisterebbe un livello più profondo della realtà che noi non cogliamo in cui tutto sarebbe riconducibile a uno e viceversa, rendendo così ogni cosa una pura illusione derivante principalmente dalla mancanza di comprensione della reale natura dello spazio e del tempo, in particolare della contemporaneità di passato, presente e futuro. In un universo olografico dunque, poiché la struttura universale ultima sarebbe identica a quella della mente umana, cioè essendo entrambe di natura olografica, l’entità dei cambiamenti che si potrebbero apportare alla sostanza della realtà sarebbe illimitata. La realtà sarebbe pertanto un sorta di “tela bianca” (come lo stesso Boylan afferma) sulla quale poter dipingere a nostro piacimento. Fenomeni contrari alle leggi della meccanica quantistica, come per esempio spostare qualcosa o qualcuno ad una velocità superiore a quella della luce o pigiare un cucchiaino con la mente, afferenti alla modificazione dello spazio, del tempo e dell’energia, diventerebbero quindi spiegabili e possibili.
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Carl Gustav Jung
Carl Gustav Jung (Kesswil, 26 luglio 1875 – Bollingen, 6 giugno 1961) è stato uno psichiatra e psicoanalista svizzero. La sua tecnica e teoria di derivazione psicoanalitica è chiamata “psicologia analitica“. Inizialmente vicino alle concezioni di Sigmund Freud se ne allontanò definitivamente nel 1913, dopo un processo di differenziazione concettuale culminato con la pubblicazione, nel 1912, di “La libido: simboli e trasformazioni“. In questo libro egli esponeva il suo orientamento, ampliando la ricerca analitica dalla storia personale del singolo alla storia della collettività umana. L’inconscio non è più solo quello individuale, prodotto dalla rimozione, ma nell’individuo esiste anche un inconscio collettivo. In Italia l’orientamento junghiano della psicoanalisi è stato introdotto da Ernst Bernhard.
Nacque nel 1875 da Paul Jung, un teologo oltre che pastore protestante, e da Emilie Preiswerk a Kesswil, nel cantone svizzero di Turgovia dopo pochi mesi la famiglia si trasferisce a Sciaffusa e nel 1879 a Klein Hüningen (un paese ora inglobato nella periferia di Basilea) dove il padre diventa rettore della pieve esercitando in seguito anche la funzione di cappellano nel manicomio della città. È un bambino solitario, sarà figlio unico per nove anni fino alla nascita della sorella Gertrud. Il suo amico d’infanzia Albert Oeri (1875–1950) ricorda il primo incontro con Carl, quando entrambi erano molto piccoli: lo descrive come “un mostro di asocialità”, concentrato sui propri giochi e tutto il contrario di quello che aveva conosciuto all’asilo del paese, dove i bambini giocavano, si picchiavano e comunque stavano sempre insieme. I due resteranno legati da amicizia per tutta la vita. Nel 1895 si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Basilea e nel 1900 si laureò in medicina con la tesi Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti una trattazione sui fenomeni medianici della cugina, Helene Preiswerk, che pubblicò nel 1902 . Il libro che lo colpì di più in questo periodo fu Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche di cui scrisse nei Ricordi (1962, p. 139): «Come per il Faust di Goethe, si trattò di un’esperienza terribile». Nel dicembre 1900 cominciò a lavorare all’istituto psichiatrico di Zurigo, il Burgholzli, diretto da Eugene Bleuler. Nell’inverno 1902-3 Jung fu a Parigi per frequentare le lezioni di Pierre Janet. Nel 1903 sposò Emma Rauschenbach, che rimase con lui fino alla morte nel 1955. Nel 1905 fu promosso ai vertici del Burgholzli e divenne libero docente all’Università di Zurigo, dove rimase fino al 1913. Tra il 1904 e il 1907 pubblicò vari studi sul test di associazione verbale e nel 1907 il libro Psicologia della dementia praecox. La personalità scientifica di Jung si manifesta con il concetto di “complesso”. Esso è un insieme strutturato di rappresentazioni, consce e meno consce, dotate di una forte carica affettiva. La psiche umana è un insieme indeterminato ed indeterminabile di complessi, tra i quali è da considerarsi lo stesso Io, il complesso che ha l’appannaggio della coscienza ed è in relazione con tutti gli altri. Quando questa relazione si indebolisce o si spezza, gli altri complessi si fanno autonomi, inconsci, e si arrogano la possibilità di dirigere l’azione, con un processo di dissociazione che è all’origine del disagio psichico.
Nel 1906 aderì alla psicoanalisi e iniziò la corrispondenza con Freud, che incontrò personalmente per la prima volta a Vienna nel 1907. In seguito lo incontrò nuovamente in Svizzera a Zurigo, dove scrissero un libro assieme. Nel 1909 Jung, assieme a Freud e Ferenczi, si recò alla Clark University di Worcester, nel Massachusetts, dove ricevette la laurea honoris causa in legge. Nel 1910 fu eletto presidente della Associazione psicoanalitica internazionale e direttore dello “Jahrbuch”, la rivista ufficiale della società. In questo periodo, iniziò ad essere descritto come il “Delfino” della Psicoanalisi, il possibile successore di Freud alla guida del movimento psicoanalitico. Nel 1909 si ebbero però le prime avvisaglie della separazione che in seguito sarà all’origine dell’articolarsi dei due principali orientamenti storici della psicoanalisi, intesa sia come terapia che come via per la conoscenza della psiche. Nel 1909 infatti la Clark University invitò sia Freud che il suo più importante collaboratore, Jung, a tenere un ciclo di conferenze negli Stati Uniti. Durante il lungo viaggio in nave i due pionieri della psicoanalisi analizzavano reciprocamente i loro rispettivi sogni. In questa psicoanalisi sull’oceano dove i due fungevano entrambi da psicoanalisti e da pazienti, Freud manifestò, a detta di Jung, un atteggiamento di reticenza su alcuni particolari della sua vita privata che invece sarebbero serviti a Jung per una più attenta interpretazione. Ad aggravare questa situazione però fu il fatto che Freud su questo punto fu molto chiaro: il motivo della sua reticenza era che non poteva permettersi la libertà di mettere a repentaglio la sua autorità. Fu proprio in quel momento invece che Jung cominciò a mettere in discussione la sua stessa stima per Freud che sino ad allora aveva avuto.
Nel 1912 Jung pubblicò il suo testo fondamentale Trasformazioni e simboli della libido, dove erano presenti i primi disaccordi teorici con Freud assieme al primo abbozzo di una concezione finalistica della psiche. I disaccordi continuarono nelle conferenze sulla psicoanalisi (Fordham lectures) tenute da Jung lo stesso anno a New York. L’aspetto centrale delle differenze teoriche risiedeva in un diverso modo di concepire laLibido: mentre per Freud il “motore primo” dello psichismo risiedeva nella pulsionalità sessuale, Jung proponeva di riarticolare ed estendere il costrutto teorico di Libido, rendendolo così comprensivo anche di altri aspetti pulsionali costitutivi “dell’energia psichica”. La “sessualità” passa così dall’essere costrutto unico e centrale nella metapsicologia Freudiana, a costrutto importante ma non esclusivo della vita psichica in quella Junghiana. La libido è l’energia psichica in generale, motore di ogni manifestazione umana, compresa la sessualità. Essa va aldilà di una semplice matrice istintuale proprio perché non è interpretabile solo in termini causali. Le sue “trasformazioni”, necessarie a spiegare l’infinita varietà di modi in cui si dà l’uomo, sono dovute alla presenza di un particolare apparato di conversione dell’energia, la funzione simbolica.
Il termine “simbolo” è poi inteso secondo una concezione del tutto opposta a quella di Freud, il quale aveva assimilato il concetto di simbolo a quello di segno, sulla base dell’elemento comune del rinvio. Ma mentre il segno compone in modo puramente convenzionale qualcosa con qualcos’altro (aliquid stat pro aliquo), il simbolo è un caso particolare del segno in cui, pur rimanendo l’elemento genericamente semiotico del rinvio, questo rinvio non è diretto ad una realtà determinata da una convenzione, ma alla ricomposizione di un intero, come vuole l’etimologia della parola. Ecco qui un’altra differenza con Freud: se egli interpretava le fantasie inconsce alla stregua di meri segni di pulsioni, inaccettabili per la coscienza, per Jung esse sono, se interpretate adeguatamente dall’io, simboli di nuove realizzazioni psichiche. Solo così si rende conto del carattere costitutivamente aperto al nuovo della psiche, invece di ancorare quest’ultima al passato in un’inarrestabile coazione a ripetere. La funzione simbolica (o trascendente) è capace di superare le opposizioni di cui la psiche è costituita proprio attraverso la produzione di simboli. Essa opera affinché possa avere luogo l’individuazione, cioè quel processo sintetico che coinvolge gli opposti che costituiscono l’uomo, e nel quale l’individuo si riconosce nella sua autonomia dagli stereotipi culturali. L’adattamento trova la sua ideale prosecuzione in questo processo, diviso in un momento di distinzione degli opposti (da cui si fa un “passo indietro”) e in uno di integrazione di questi ultimi. Il conflitto tra Freud e Jung crebbe al congresso dell’Associazione Psicoanalitica, svoltosi a Monaco nell’agosto del 1913 contro le posizioni psicoanalitiche espresse da Janet durante la sessione dedicata alla psicoanalisi. Nell’ottobre successivo si ebbe la rottura ufficiale, Jung si dimise dalla carica di direttore dello “Jahrbuch”. Ad aprile 1914 si dimise da presidente dell’Associazione e uscì definitivamente dal movimento psicoanalitico.
La psicoanalisi, quale creatura i cui meriti di gestazione erano ascritti al solo Freud, per la cui nascita aveva pagato con l’isolamento e l’ostracismo da parte del mondo accademico ufficiale, questa psicoanalisi quale nuova via della conoscenza, per Jung era divenuta più importante dello stesso padre che l’aveva generata. Era nata dal lavoro di Freud, ma adesso si trattava di farla crescere. L’aspetto che li differenziava di più era la concezione dell’inconscio. Freud affermava che l’inconscio alla nascita era un contenitore vuoto e durante la vita si riempiva delle cose che la coscienza riteneva “inutili”. Al contrario, Jung asseriva che l’inconscio aveva una sua autonomia creativa già dalla nascita di un essere umano. Inoltre, secondo Jung, la psicoanalisi di Freud era schematica e teneva poco conto della persona nel suo contesto vitale. Invece Jung dava importanza alla persona ed al suo contesto, così diede via alla sua “psicologia analitica” che voleva essere non solo uno strumento per guarire da patologie psicologiche ma anche una specie di filosofia di vita, o ancor meglio uno strumento per adattare la propria anima alla vita e poterne cogliere tutte le potenzialità di espressione e specificità individuale. Egli chiamò questo percorso “individuazione“. Al concetto di individuazione si lega la nozione di archetipo. Jung ipotizza che alla trasformazione della libido e ai suoi simboli sia sottesa una pluralità indeterminata di “immagini primordiali”, collettiva e immutabile, intese come una sorta di kantiane “forme a priori” che concorrono, come serbatoio originario dell’immaginazione, alla formazione dei simboli. La funzione trascendente proietta l’individuo al di fuori di sé, sul piano di un pensiero inconscio collettivo. Se la coscienza riesce a sviluppare un atteggiamento positivo nei confronti dei prodotti di questa facoltà, i simboli, l’individuo può liberarsi del suo disagio riaffrontandolo da un punto di vista diverso, “trascendentale”. Inoltre egli, nel differenziarsi da queste matrici collettive di senso e dagli istinti primordiali, può integrare i valori universali custoditi dalla cultura, trovando una modalità personale di attuarli.
Un altro concetto fondamentale, il tipo, viene introdotto da Jung con la pubblicazione di Tipi psicologici. L’oggetto dell’opera è una classificazione degli individui secondo tipi che prende le mosse dalle caratteristiche del loro adattamento. Essi si articolano attorno alla fondamentale polarità introverso/estroverso, e alla conseguente distinzione di due individui tipici fondamentali. Individuati dall’opposto orientamento generale della loro libido primaria (intro-versa o estro-versa) riprendono, in individui diversi, il ritmo sistole/diastole tematizzato da Goethe. Per spiegare le rilevanti differenze individuali all’interno dei gruppi, Jung incrocia l’iniziale modello bipolare con una ulteriore quadripartizione in funzioni psichiche (il pensiero, il sentimento, la sensibilità e l’intuizione). L’appartenenza ad uno di questi quattro sottogruppi è motivata dalla funzione che nel corso dell’adattamento viene privilegiata, e a cui l’individuo, a partire dall’infanzia, affida le sue speranze di riuscita. La combinazione tra questi due “assi” dà luogo agli otto tipi psicologici individuali . Ciò che preme a Jung non è però presentare un’ennesima classificazione delle personalità, ma relativizzarne l’esperienza fenomenologica. È l’orientamento della coscienza dunque, il suo intenzionarsi, che viene classificato, e non un banale coacervo di caratteristiche individuali. Questa teoria assume rilievo nel processo di individuazione, nel quale è necessario che l’Io sia consapevole dell’atteggiamento psicologico che si è reso dominante o esclusivo. Solo superando la propria unilaterale adesione ad un modo di rappresentare la realtà e aprendosi agli altri modi, l’individuo può davvero affermare la sua autonomia da modelli collettivi accettati inconsapevolmente (che siano gli archetipi dell’inconscio collettivo o le “modalità di funzionamento” della facoltà di rappresentare considerata nella sua formalità). La “scelta” del tipo psicologico a cui l’individuo appartiene corrisponde, infatti, più ad esigenze collettive che individuali. Mostrare il valore delle opzioni trascurate dallo sviluppo è il compito dell’individuazione, allo studio e alla pratica della quale d’ora in poi la psicologia analitica si consacrerà. Diventa così possibile il confronto con le funzioni arrestatesi ad uno stadio arcaico dello sviluppo, integrandole in una individualità dinamicamente matura.
Nel 1930 Jung fu nominato presidente onorario della Associazione tedesca di psicoterapia. Con l’avvento del nazismo questa Associazione, cui aderivano parecchi psicoterapeuti ebrei, fu sciolta e ne fu creata un’altra, a carattere internazionale, con Jung presidente. Nel 1934 Jung fu criticato per la sua adesione ad un’organizzazione di origine nazista, oltre che per la sua funzione di redattore capo della rivista Zentralblatt fur Psychotherapie, un periodico di analoga matrice nazista. Jung e i suoi difensori, in questa querelle sulla presunta adesione di Jung al nazismo, replicarono sostenendo che la sua presenza in questi organismi avrebbe permesso di salvaguardare l’attività degli psicoterapeuti tedeschi ebrei.
In questa stessa epoca Hitler prendeva il potere in Germania e, sfortunatamente per Jung, il caso volle che il redattore tedesco della rivista, il cui nome compariva accostato a quello di Jung risultava essere il professor Göring, cugino del più famoso Hermann Göring, delfino di Adolf Hitler. In questo periodo di presidenza Jung scrisse l’articolo “Wotan” apparso sulla Neue Schwezer Rundschau che in seguito diverrà il primo capitolo dell’opera Aspetti del dramma contemporaneo. Sempre i sostenitori di Jung in questa querelle sostennero che Jung non accettò questo incarico a cuor leggero ma nella speranza di salvare il salvabile, tant’è che, quando si accorse di non poter fare nulla, nel 1939 rassegnò le dimissioni sia dalla carica di presidente della “Società medica internazionale di psicoterapia” sia da redattore della rivista. In questo stesso periodo le autorità hitleriane avevano già preso misure contro Jung: gli era stato negato l’accesso in territorio tedesco, le sue opere vennero bruciate o mandate al macero in tutti i paesi d’Europa nei quali era possibile e il suo nome figurò nella famigerata lista “Otto”, vicino a quella di Freud e di molti altri (come testimoniato da alcuni conoscenti, Jung temeva di poter essere “liquidato” dalle SS in caso di invasione della Svizzera durante la seconda guerra mondiale, proprio per via delle sue note posizioni critiche antinaziste). La relazione tra Jung e il nazismo continuò, anche dopo la guerra, ad essere oggetto di polemiche e dibattiti. Sia nella sua autobiografia (“Ricordi, Sogni, Riflessioni”) che nella raccolta di testimonianze sulla sua vita “Jung Parla”, appaiono numerosi spunti critici rispetto al fenomeno nazista, che in alcuni suoi scritti e passaggi Jung analizzò – con molta preoccupazione – da un punto di vista psicologico-analitico collettivo.
Risale al 1923 la costruzione della famosa e per certi aspetti misteriosa Torre di Jung. In quell’anno Jung si avvicinava ai 50 anni e trovava non più soddisfacente testimoniare con la sola scrittura l’avventura della psicoanalisi e del processo individuativo che in lui si realizzava, ma voleva cercare un altro modo di simbolizzarlo che gli desse un’impressione più concreta della semplice scrittura. Così dopo la morte di sua madre Jung comprò un terreno a Bollingen, al di là del lago di Zurigo. Qui realizzò il progetto di un’abitazione dove trascorreva le vacanze ed i fine settimana. Complessivamente risiedeva a Bollingen ben sei mesi l’anno. All’inizio era solo un edificio circolare a forma di torre, ma negli anni seguenti vi aggiunse tre nuove sezioni, ampliando così la casa. L’espandersi della torre andò sempre parallelo con la sua crescita psichica nella totalità della sua vicenda. L’edificio originale era basso e nascosto fra le due torri, ma all’età di ottant’anni, dopo la morte della moglie Emma nel 1955, si sentì di aggiungere un altro piano. Da allora la casa di Bollingen, senza elettricità e senza acqua corrente, con il suo silenzio, diventò il ritiro spirituale di Jung. Da questa residenza prenderà il nome la fondazione che promuoverà la pubblicazione di tutta l’opera junghiana in America. L’edificio è ben visibile ancora oggi, anche se l’accesso è consentito attraverso il passaggio in una proprietà privata. Nell’ala dell’edificio affacciato sul lago, e protetta dalle mura in sasso che circondano il nucleo centrale della torre, si può ancora vedere la pietra scolpita da Jung. Un’immagine della pietra è visibile all’interno della biografia Ricordi, sogni e riflessioni. Nel 1944 pubblicò Psicologia e alchimia ma in quello stesso anno ebbe un incidente, una frattura e un successivo infarto. In coma visse un’esperienza di pre-morte che descriverà nel suo testo autobiografico Ricordi, sogni e riflessioni. Nel 1952 pubblicò gli importanti scritti sulla teoria della Sincronicità.
Jung a partire dagli anni quaranta si occupò anche di un fenomeno nuovo, che si intensificava sempre di più, soprattutto dalla fine della seconda guerra mondiale. Si trattava dei cosiddetti “oggetti volanti non identificati”, in sigla UFO. Jung, che leggeva tutto ciò che veniva pubblicato in relazione a questi fenomeni, si occupò più volte del tema nei suoi scritti e tre anni prima di morire, nel 1958, pubblicò un saggio dal titolo Un mito moderno. Le cose che si vedono in cielo, che può esser visto come una puntuale interpretazione psicologica del fenomeno, ma anche come una ricapitolazione essenziale delle sue principali idee sulla psiche, e insieme come un messaggio – uno degli ultimi – in cui trovano posto le speranze e i timori che egli nutriva sul futuro dell’umanità. Per Jung la coscienza del nostro tempo è lacerata, frammentata da un contrasto politico, sociale, filosofico e religioso di eccezionali dimensioni. L’Io si è troppo allontanato dalle sue radici inconsce; le “meraviglie” della scienza e della tecnica sembrano volgersi in forze distruttive. I dischi volanti rappresentano visioni, oggettivazioni fantastiche di un inconscio troppo duramente represso. Tra le varie ipotesi è dunque “un archetipo a provocare una determinata visione”. Jung considera con distacco e una certa ironia l’esistenza degli UFO come fenomeno fisico, sebbene nell’ultima parte del suo saggio egli sembri disposto a dare maggior credito alla loro effettiva realtà, per introdurre cautamente l’ipotesi che esista una sincronicità tra inconscio e fenomeno reale. Morì il 6 giugno 1961, dopo una breve malattia, nella sua casa sul lago. Fra i vari precursori di Jung figurano soprattutto Platone, ma anche il neoplatonico Plotino e il Trascendentalista Ralph Waldo Emerson, specialmente con l’idea di Oversoul (Oltreanima) e il saggio Demonology.
«L’alchimia è, come il folclore, un grandioso affresco proiettivo di processi di pensiero inconsci. A causa di questa fenomenologia mi sono sottoposto allo sforzo di leggere da cima a fondo l’intera letteratura classica dell’alchimia» C.G.Jung
«Quel che viene dopo la morte è qualcosa di uno splendore talmente indicibile, che la nostra immaginazione e la nostra sensibilità non potrebbero concepire nemmeno approssimativamente…Prima o poi, i morti diventeranno un tutt’uno con noi; ma , nella realtà attuale, sappiamo poco o nulla di quel modo d’essere. Cosa sapremo di questa terra, dopo la morte? La dissoluzione della nostra forma temporanea nell’eternità non comporta una perdita di significato: piuttosto, ci sentiremo tutti membri di un unico corpo» C.G.Jung
Dal Profondo dell’Anima: Video Documentario sul pensiero di Carl Gustav Jung
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Esperienze ai confini della morte: Il contributo di Pim van Lommel
Le esperienze ai confini della morte, anche note come NDE (acronimo per l’espressione inglese “Near Death Experience”, a volte tradotto in italiano come esperienza di pre morte) sono esperienze vissute e descritte da soggetti che, a causa di malattie terminali o eventi traumatici, hanno sperimentato fisicamente la condizione di coma, arresto cardiocircolatorio e/o encefalogramma piatto, senza tuttavia giungere fino alla vera e propria morte. Da un punto di vista strettamente scientifico, il contributo a tutt’oggi piu’ approfondito e’ probabilmente quello di Pim van Lommel, un cardiologo olandese che insieme ad altri colleghi nel 2001 pubblico’ sulla prestigiosa rivista medica “The Lancet” i risultati di uno studio condotto per oltre 10 anni su 344 pazienti. Lo studio, condotto con metodi statistici, aveva come obiettivo la verifica dell’esistenza o meno delle NDE. Piu’ specificamente, lo scopo fu quello di verificare se cio’ che chiamiamo coscienza e memoria fosse un fenomeno dell’attivita’ cerebrale o se fosse indipendente da questa. Dopo una lunga disquisizione sui metodi adottati, sui pazienti, sulle medicine usate negli interventi etc. van Lommel e colleghi conclusero che i fenomeni riscontrati potevano essere spiegati solo assumendo che la coscienza non fosse un semplice epifenomeno dell’attivita’ cerebrale. Data la prestigiosa natura della rivista nella quale lo studio fu pubblicato, ben presto nacque una polemica tra i sostenitori della natura puramente materialistica della coscienza e Van Lommel. L’attacco piu’ conosciuto venne dalle colonne di Scientific American, firmato da Michael Shermer, al quale van Lommel indirizzo’ una circostanziata replica.
Nella sua rubrica “Lo scettico” ( su Scientific American del marzo 2003), Michael Shermer citava una ricerca pubblicata sulla celebre rivista medica The Lancet, del dott. Pim van Lommel e collaboratori, asserendo che quello studio segnava un punto a sfavore dell’idea che mente e cervello possano separarsi. Eppure i ricercatori sostenevano l’esatto opposto, mostrando che esperienze coscienti fuori dal corpo hanno luogo durante periodi di morte clinica, allorquando l’attività del cervello è a zero (encefalogramma piatto). Come ha commentato Jay Ingram sul Canadian Discovery Channel: “L’uso che (Shermer) fa dello studio (di van Lommel) a vantaggio del proprio punto di vista è fraudolento. Avrebbe dovuto dire: «Gli autori pensano che vi sia un mistero, ma io intendo interpretare diversamente le loro scoperte». Invece non l’ha fatto, e penso che questo sia molto spiacevole”. Nell’articolo che segue (tratto da http://nderf.org ), Pim van Lommel ribadisce che Shermer ha presentato le prove in modo distorto:
“Solo recentemente mi è stato mostrato l’articolo nella rubrica “Lo scettico” di Michael Shermer. Da un organo di stampa così prestigioso e, secondo la mia opinione, scientifico, come io reputo Scientific American, mi attendo sempre articoli scientificamente ben documentati, e non so con quale approfondimento sia stato revisionato l’articolo di Shermer dallo staff redazionale della rivista prima della pubblicazione. La mia reazione all’articolo di Shermer è dovuta al fatto che sono il principale autore dello studio pubblicato su The Lancet nel dicembre 2001 col titolo: “Near-death experiences in survivors of cardiac arrest: a prospective study in the Netherlands” (NDE di sopravvissuti ad arresti cardiaci: un’indagine estensiva in Olanda”. Ciò che (Shermer) scrive a proposito delle conclusioni della nostra indagine e degli effetti delle stimolazioni elettriche e magnetiche del cervello, mi obbliga a scrivere quest’articolo, dato che sono in disaccordo tanto sulle sue teorie quanto sulle sue conclusioni.
La nostra indagine è stata condotta su 344 sopravvissuti ad arresti cardiaci per studiare la frequenza, la causa ed il contenuto delle loro NDE. Una NDE è la testimonianza delle impressioni vissute durante uno speciale stato di consapevolezza, che comprende elementi specifici come un’OBE (Out of Body Experience = esperienza fuori dal corpo), sensazioni piacevoli, la visione di un tunnel, di una luce, di parenti defunti, ed eventualmente una revisione della propria vita. Nella nostra indagine 282 pazienti (82%) non conservavano alcun ricordo relativo al periodo di incoscienza, mentre 62 pazienti (18%) riferirono di aver avuto una NDE con tutti gli elementi “classici”. Tra i due gruppi non c’era alcuna differenza in relazione alla durata dell’arresto cardiaco o dello stato di incoscienza, all’intubazione, al trattamento medico, alla paura di morire presente prima dell’arresto cardiaco, al sesso, alla religione, al livello di istruzione o a precedenti informazioni sulle NDE. Furono riportate con maggior frequenza NDE in persone di età inferiore ai 60 anni, con più di un ritorno in vita da una crisi cardiopolmonare durante la degenza in ospedale (CPR = Cardiopulmonary Resurrection) e precedenti NDE. Pazienti con problemi di memoria conseguenti a CPR prolungate e complicate riportarono NDE con minor frequenza.
Vi sono diverse teorie che tentano di spiegare le cause ed il contenuto delle NDE. Una spiegazione è quella fisiologica, perla quale la NDE è sperimentata come risultato di una condizione di anossia (riduzione dell’ossigeno) nel cervello, possibilmente anche in concomitanza col rilascio di endorfine (endomorfine) o con una condizione di blocco dei recettori di NMDA (nota del webmaster: neurotrasmettitore attivo nelle comunicazioni sinaptiche).
Nella nostra indagine tutti i pazienti ebbero un arresto cardiaco, erano clinicamente morti, in stato di incoscienza provocato da un insufficiente apporto di sangue al cervello a causa di inadeguata circolazione sanguigna, di insufficienza respiratoria o di entrambe. Se in tali condizioni la CPR non viene attivata entro 5÷10 minuti il cervello subisce un danno irreparabile ed i paziente muore. Secondo la teoria fisiologica tutti i pazienti della nostra indagine avrebbero dovuto avere una NDE, poiché tutti erano clinicamente morti a causa di anossia del cervello provogata da insufficiente circolazione sanguigna, ma solo il 18% riferì di aver avuto una NDE.
Un’altra spiegazione è quella psicologica: la NDE è causata dalla paura della morte. Ma nella nostra indagine solo una minima percentuale di pazienti riferì di aver avuto paura della morte nei secondi precedenti l’arresto cardiaco: tutto era accaduto così improvvisamente che non si erano neanche resi conto di cosa stava loro succedendo. Tuttavia il 18% ebbe una NDE. Anche il trattamento medico non fece alcuna differenza.
Noi sappiamo che un paziente colpito da arresto cardiaco diventa inconscio nel giro di pochi secondi, ma come facciamo a sapere che l’elettroencefalogramma (EEG) di questi pazienti è completamente piatto, e come possiamo studiarlo? In seguito all’arresto cardiaco si riscontra il completo arresto della circolazione cerebrale a causa della fibrillazione ventricolare (VF) durante il test di soglia al momento dell’applicazione dei defribillatori interni. Questo completo modello cerebrale ischemico può essere usato per studiare i risultati dell’anossia del cervello.
La VF (fibrillazione ventricolare) provoca il completo arresto cardiaco e l’interruzione dell’afflusso di sangue al cervello, con conseguente anossia acuta in tutto il cervello. Il flusso sanguigno dell’arteria cerebrale media, che rappresenta un affidabile indicatore del decorso del flusso sanguigno cerebrale, diminuisce fino a 0 cm/sec immediatamente dopo l’insorgere della VF. Attraverso diversi studi su modelli tanto umani quanto animali, è stato dimostrato che la funzione cerebrale viene gravemente compromessa durante l’arresto cardiaco e che l’attività elettrica sia nella corteccia cerebrale che nelle strutture più profonde del cervello risulta assente dopo un periodo di tempo assai breve. Il monitoraggio dell’attività elettrica della corteccia tramite EEG ha mostrato cambiamenti ischemici che consistono nella diminuzione delle onde veloci di elevata ampiezza e nell’aumento delle onde lente (onde delta), ed in certi casi anche un incremento nell’ampiezza delle onde theta, che progressivamente e definitivamente declinano verso uno stato isoelettrico (senza attività elettrica). Spesso l’iniziale attenuazione delle onde mostrata dall’EEG è il primo segnale dell’ischemia cerebrale: i primi mutamenti ischemici sono evidenziati dall’EEG in media dopo 6,5 secondi dall’arresto circolatorio. Se l’ischemia cerebrale si prolunga, viene sempre monitorato un progresso verso la linea isoelettrica (EEG piatto) entro un periodo che va da 10 a 20 secondi (in media 15 sec.) dalll’insorgere dell’arresto cardiaco.
In caso di arresto cardiaco prolungato (oltre 37 secondi) l’EEG non indica alcun ritorno di attività cerebrale per un periodo di diversi minuti fino ad ore dopo l’avvenuta ripresa del battito cardiaco, in funzione della durata dell’arresto cardiaco, nonostante venga mantenuta un’adeguata pressione sanguigna durante la fase di ripristino del normale stato circolatorio. Dopo la defribillazione il flusso circolatorio dell’arteria cerebrale media riprende rapidamente entro 1÷5 secondi, indipendentemente dalla durata dell’arresto. Tuttavia la ripresa dell’EEG richiede più tempo, a seconda della durata dell’arresto cardiaco. I segnali dell’EEG indicano un ritardo nella ripresa dell’attività metabolica del cervello, e l’utilizzazione dell’ossigeno cerebrale può risultare inibita per un periodo di tempo considerevole dopo la ripresa della circolazione, per il motivo che l’iniziale eccesso alla riattivazione (iperossia) è seguito da una significativa diminuzione del flusso sanguigno cerebrale.
L’anossia provoca perdite di funzioni nel sistema cellulare. Tuttavia, se l’anossia dura solo qualche minuto tale perdita può essere transitoria, mentre un’anossia prolungata causa la morte cellulare con conseguente perdita permanente di alcune funzioni. Durante un episoodio di embolia un piccolo grumo ostruisce il flusso sanguigno in un capillare della corteccia cerebrale, provocando un’anossia in quella parte del cervello con assenza di attività elettrica. Questo comporta la perdita delle funzioni di quella parte della corteccia, e l’insorgere di emiplegia (paralisi di una parte del corpo) o di afasia (perdita della facoltà di parlare o di comprendere le parole). Quando il grumo viene rimosso o dissolto entro alcuni minuti, la funzione corticale perduta viene recuperata. In questo caso si parla di attacco ischemico transitorio (TIA). Ma se il grumo ostruisce il vaso cerebrale per un periodo da alcuni minuti a più di un’ora si avrà la morte di cellule neuronali con permanente perdita di funzioni in quella parte del cervello e conseguente emiplegia o afasia irreversibile, e la diagnosi sarà di accidente cerebrovascolare (CVA). L’anossia transitoria comunque causa una perdita di funzioni transitoria.
Nell’arresto cardiaco l’anossia globale del cervello si instaura entro pochi secondi. La tempestiva ed adeguata CPR consente il recupero della perdita funzionale del cervello in quanto previene il definitivo danneggiamento delle cellule cerebrali, che ne causerebbe la morte. Un’anossia di lunga durata, provocata da un’interruzione del flusso sanguigno al cervello per un periodo superiore a 5÷10 minuti, causa un danno irreversibile e la morte di un elevato numero di cellule del cervello. Questo evento viene definito morte cerebrale, ed in tal caso la maggior parte dei pazienti muoiono definitivamente.
Nell’infarto miocardico acuto la durata dell’arresto cardiaco (VF) è di solito di 60÷120 secondi all’interno dell’unità di intervento, di 2÷5 minuti nella guardia medica e di oltre 5÷10 minuti in caso di infarto estraospedaliero. Solo durante il test di soglia per l’applicazione dei defribillatori interni o durante le indagini di stimolazione elettrofisiologica la durata dell’arresto cardiaco può essere contenuta entro i 30÷60 secondi.
Da questi studi possiamo sapere che nella nostra indagine su pazienti clinicamente morti (VF risultante dall’elettrocardiogramma ECG) nessuna attivitò elettrica può esser stata possibile nella corteccia del cervello (EEG piatto), ma si sono inoltre instaurate condizioni di abolizione dell’attività del tronco cerebrale testimoniate dalla perdita del riflesso corneale, dalle pupille dilatate e fisse e dalla perdita del riflesso di stimolazione della faringe (gag reflex), eventi riscontrati di norma nei nostri pazienti. Nonostante ciò, i pazienti che hanno avuto una NDE riferiscono di essersi trovati in uno stato di consapevolezza molto chiara nel quale le funzioni cognitive, le emozioni, il senso di identità ed i ricordi fin dalla prima infanzia erano presenti, così come la percezione da una posizione esterna ed al di sopra del loro corpo “morto”. Sulla base delle OBE che in alcuni casi sono state riferite e dunque hanno potuto essere verificate, come il caso della protesi dentaria riportato nella nostra indagine, sappiamo che le NDE hanno avuto luogo durante lo stato di incoscienza totale, e non durante i secondi iniziali o terminali di questo periodo.
Così dobbiamo concludere che le NDE della nostra indagine si sono verificate durante la perdita funzionale transitoria di tutte le funzioni della corteccia e del tronco cerebrale. È importante ricordare che esiste il ben documentato caso clinico di una paziente con una costante registrazione dell’EEG durante un’operazione di chirurgia cerebrale per la rimozione di un aneurisma cerebrale gigante alla base del cervello: la paziente fu operata con una temperatura corporea ridotta a 10÷15 gradi, in stato di VF e con una macchina cuore-polmone attiva, con tutto il sangue drenato dal cervello, con EEG piatto, con auricolari di stimolo in entrambe le orecchie, con le palbebre chiuse con nastro adesivo (nota del webmaster: pertanto non poteva né udire né vedere, anche inconsciamente, quanto stava accadendo intorno a lei). Questa paziente ebbe una NDE con un’OBE, e tutti i dettagli che vide ed udì furono in seguito verificati.
C’è una teoria secondo la quale la coscienza può essere sperimentata indipendentemente dal normale stato di coscienza legato al corpo. Un concetto comune della scienza medica asserisce che la coscienza è il prodotto del cervello. Tuttavia tale concetto non è mai stato provato scientificamente. Le ricerche sulle NDE ci spingono ai limiti delle nostre concezioni mediche circa la portata della coscienza umana e le relazioni tra il cervello, la coscienza ed i ricordi.
Per decenni sono state condotte ricerche ad ampio raggio per localizzare i ricordi all’interno del cervello: fino ad oggi non hanno avuto successo. In relazione all’ipotesi che la coscienza ed i ricordi sono conservati nel cervello, sorge anche la questione di come attività non materiali come l’attenzione concentrata o il pensiero possano corrispondere ad una reazione visibile (materiale) sotto forma di una misurabile attività elettrica, magnetica o chimica in una certa zona del cervello. Differenti attività mentali danno origine a mutevoli circuiti di attività in diverse parti del cervello. Questo fatto è stato evidenziato in neurofisiologia mediante l’uso di EEG, di magneto-encefalogrammi (MEG) e più recentemente mediante la risonanza magnetica (MRI) e la tomografia ad emissione di positroni (PET). Inoltre si riscontra un’intensificazione del flusso sanguigno cerebrale durante un’attività certamente non materiale come il pensare. Inoltre non si è ancora ben compreso in che modo spiegare il fatto che in un esperimento sensorio un soggetto sul quale veniva condotto un test di stimolazione fisica asseriva di essere cosciente della sensazione provocata dallo stimolo alcuni millesimi di secondo dopo la stimolazione, mentre il cervello del soggetto indicava che la risposta neuronale non era ottenuta se non dopo 500 millesimi di secondo. Questo esperimento ha portato ad avanzare la cosiddetta ipotesi del “ritardo precedente”.
La maggior parte delle cellule del corpo, ed in special modo tutti i neuroni, mostrano un potenziale elettrico intorno alle membrane cellulari formato dalla presenza di una pompa metabolica Na/K (sodio-potassio). Il trasferimento dell’informazione lungo i neuroni avviene mediante potenziali di attività, cioè differenze di potenziale nelle membrane causate dalla depolarizzazione sinaptica (eccitatoria) e dall’iperpolarizzazione (inibitoria). La somma totale dei cambiamenti lungo i neuroni provoca campi elettrici transitori, e di conseguenza anche campi magnetici transitori, lungo i dendriti attivati sincronicamente. Il fatto cruciale non è costituito né dal numero dei neuroni coinvolti, né dalla forma delle ramificazioni dendritiche, né dall’accurata posizione delle sinapsi e neppure dall’attivazione di neuroni specifici, ma dai conseguenti campi elettromagnetici transitori che si generano lungo i dendriti. Questi campi dovrebbero conformarsi quanto più accuratamente possibile a circuiti significativi di breve durata, costantemente variabili nella forma quadri-dimensionale e nell’intensità (auto-organizzazione), costantemente e reciprocamente interagendo tra tutti i neuroni. Questo processo può esser considerato come un fenomeno di coerenza quantica biologica.
Si deve ora far menzione dell’influenza di campi elettrici e magnetici localizzati all’esterno del cervello su questi campi elettromagnetici interni costantemente mutevoli durante il normale funzionamento del cervello.
Ricerche neurofisiologiche sono state condotte utilizzando stimolazioni magnetiche transcraniali (TMS), nel corso delle quali viene prodotto un campo magnetico localizzato (fotoni). La TMS può eccitare o inibire differenti parti del cervello, a seconda delle quantità di energia fornita, consentendo una mappatura funzionale delle regioni corticali e la creazione di lesioni funzionali transitorie. Permette inoltre di stimare la funzione di regioni focali del cervello in scala di millisecondi, e può studiare il contributo della rete neuronale corticale a specifiche funzioni cognitive. La TMS è uno strumento di ricerca non invasivo per studiare aspetti della fisiologia del cervello umano che includono tanto le funzioni motorie, la visione, il linguaggio, e la patofisiologia delle disfunzioni del cervello, quanto le alterazioni dell’umore come la depressione, e può anche risultare utile per la terapia. Nelle indagini la TMS può interferire con la percezione motoria e visuale, dando un’interruzione dei processi corticali con un intervallo di 80÷100 millisecondi. L’inibizione e la facilitazione intracorticale sono ottenute mediante impulsi appaiati con la TMS, e riflettono l’attività degli interneuroni della corteccia. Sebbene la TMS possa alterare il funzionamento del cervello anche oltre il periodo di stimolazione, non sembra lasciare alcun effetto duraturo.
L’interruzione dei campi elettrici di reti neuronali locali in alcune zone della corteccia può disturbare il normale funzionamento del cervello: il neurochirurgo premio Nobel W. Penfield, durante operazioni sul cervello di soggetti epilettici, riuscì ad indurre flash di memorie del passato (ma non una completa revisione della vita), visioni di luce, esperienze auditive di suoni e musica, e più raramente una specie di esperienzfuori dal corpo (OBE) mediante stimolazioni elettriche localizzate del lobo temporale e parietale. Queste esperienze tuttavia non produssero alcuna trasformazione. Dopo molti anni di ricerche egli giunse infine alla conclusione che non è possibile localizzare i ricordi all’interno del cervello. Anche Olaf Blanke ha pubblicato di recente su Nature il caso di un paziente soggetto ad epilessia nel quale era stata indotta un’OBE mediante l’inibizione dell’attività corticale causata da una più intensa stimolazione elettrica esterna del giro angolare.
L’effetto della stimolazione elettrica o magnetica esterna dipende dalla quantità di energia impiegata. Può non esservi alcun effetto clinico o in certi casi si nota qualche stimolo quando viene utilizzata solo una minima quantità di energia, per esempio durate la stimolazione della corteccia motoria. Ma durante una stimolazione con energia più elevata si produce l’inibizione delle funzioni corticali locali attraverso l’estinzione dei campi elettrici e magnetici: ne consegue l’inibizione della rete neuronale locale (comunicazione personale di Olaf Blanke). Anche nel caso del paziente descritto da Blanke in Nature fu prodotta una stimolazione con energia elettrica di livello elevato, ottenendo l’inibizione della funzione della rete neuronale nel giro angolare.
E quando, per esempio, la corteccia visuale occipitale è stimolata mediante TMS, il risultato non è una miglioramento della vista, ma invece una cecità temporanea causata dall’inibizione di questa parte della corteccia. Dobbiamo arguirne che la stimolazione artificiale localizzata mediante fotoni (energia elettrica o magnetica) disturba fino ad inibire il campo elettrico e magnetico costantemente mutevole delle reti neuronali, influenzando ed inibendo di conseguenza il normale funzionamento del cervello.
Nel tentativo di comprendere questo concetto di mutua interazione tra la coscienza “invisibile e non misurabile”, con il suo enorme patrimonio di informazioni, ed il nostro corpo materiale, ben visibile, sembra assennato fare un confronto con i nostri moderni sistemi di comunicazione internazionale.
C’è un continuo interscambio di informazione oggettiva per mezzo di campi elettromagnetici attraverso la radio, la TV, la telefonia mobile o i computer portatili. Noi siamo inconsapevoli dell’enorme quantità di campi elettromagnetici che continuamente, giorno e notte, sono attivi intorno a noi e che ci attraversano, così come attraversano strutture come muri ed edifici. Noi diventiamo consapevoli dell’esistenza di questi campi elettromagnetici informazionali solo nel momento in cui utilizziamo il cellulare o accendiamo la radio o la TV. Ciò che riceviamo non si trova all’interno dello strumento, e nemmeno nei suoi componenti, ma grazie al ricevitore l’informazione dei campi elettromagnetici diventa percepibile dai nostri sensi e questa percezione raggiunge la nostra consapevolezza. La voce che sentiamo nel telefono non si trova all’interno di esso, ed il concerto che udiamo alla radio è trasmesso ad essa, così come le immagini ed i suoni che vediamo ed udiamo in TV sono trasmessi all’apparecchio ricevente. Internet non si trova all’interno del nostro computer. Noi possiamo ricevere quasi nel medesimo istante in cui viene trasmesso da una distanza di centinaia o migliaia di chilometri un segnale che viaggia alla velocità della luce. E se noi spegnamo il televisore, la ricezione sparisce, ma la trasmissione continua. L’informazione trasmessa resta presente all’interno del campo elettromagnetico. La connessione è stata interrotta ma non è sparita, e può esser ancora ricevuta da qualche altra parte usando un altro televisore. Di nuovo, noi non ci rendiamo conto di quante migliaia di chiamate telefoniche, di quante centinaia di trasmissioni radio e TV e di segnali satellitari, codificati come campi elettromagnetici, esistono intorno a noi e ci attraversano.
Possiamo paragonare il cervello al televisore che riceve e trasforma in immagini e suoni le onde elettromagnetiche, nello stesso modo in cui la telecamera trasforma quelle immagini e quei suoni in onde elettromagnetiche? La radiazione elettromagnetica contiene l’essenza di tutte le informazioni, ma può esser rivelata ai nostri sensi da strumenti appropriati come i ricevitori TV.
Il campo informazionale della nostra coscienza e dei nostri ricordi, entrambi plasmati dalle nostre esperienze e dagli input informatici dei nostri organi sensori durante la vita, sono presenti intorno a noi come campi elettrici e/o magnetici (fotoni virtuali?), e tali campi diventano utilizzabili dalla nostra coscienza allo stato di veglia mediante il funzionamento del cervello e di altre cellule del corpo.
Per questo ci serve un cervello ben funzionante per accedere alla consapevolezza nello stato di veglia. Ma quando la funzionalità del cervello è andata perduta, come nel caso di morte clinica o di morte cerebrale, con EEG piatto, i ricordi e la coscienza esistono ancora, ma la possibilità di captarli è andata perduta. Certe persone possono sperimentare la coscienza al di fuori del loro corpo, con la facoltà di percepire i loro corpi dall’esterno e dall’alto, con un senso di identità e con una consapevolezza ed una capacità di attenzione accresciute, processi di pensiero ben strutturati, ricordi ed emozioni. E possono inoltre sperimentare la coscienza in una dimensione nella quale presente, passato e futuro esistono nello stesso istante, al di fuori dello spazio e del tempo, ed ogni cosa può essere sperimentata non appena l’attenzione viene focalizzata su di essa (revisione e previsione della vita), e qualche volta entrano perfino in contatto con il “campo di coscienza” dei loro cari defunti. Ed infine possono sperimentare anche il loro ritorno cosciente nel corpo.
Michael Shermer afferma che, in realtà, tutta l’esperienza è mediata e prodotta dal cervello, e che i cosiddetti fenomeni paranormali come le OBE non sono altro che eventi neuronali. Lo studio di pazienti che hanno avuto delle NDE, tuttavia, mostra chiaramente che la consapevolezza ed i suoi ricordi, le cognizioni, le emozioni, il senso di identità e la percezione al di fuori ed al di sopra di un corpo senza vita sono sperimentati durante un periodo in cui il cervello non è funzionante (anossia pancerebrale transitoria). E la perdita funzionale focalizzata attraverso l’inibizione di regioni corticali locali ha luogo quando si stimolano tali regioni con elettricità o con campi magnetici (fotoni), producendo in qualche caso delle OBE.
Per citare Michael Shermer “è compito della scienza risolvere i problemi mediante spiegazioni naturali, piuttosto che soprannaturali”. Ma bisogna tenersi aggiornati sui progressi della scienza, bisogna studiare la letteratura scientifica più recente e sapere cosa sta accadendo nella scienza attuale. Per me la scienza consiste nel porsi delle domande con mente aperta, e nel non aver paura di riconsiderare concetti molto diffusi ma non provati scientificamente, come quello che la coscienza ed i ricordi siano un prodotto del cervello. Ma dobbiamo anche capire che abbiamo bisogno di un cervello ben funzionante per sintonizzare la nostra coscienza in una “consapevolezza nello stato di veglia”. Ci sono ancora una grande quantità di misteri da risolvere, ma non è necessario parlare di paranormale, supernaturale o pseudoscienza se si cercano risposte scientifiche alla questione delle intriganti relazioni tra la coscienza ed i ricordi da una parte ed il cervello dall’altra”. (Pim Van Lommel)
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Ricordi di vite passate e ipnosi regressiva
Per reincarnazione si intende la rinascita dell’anima o spirito di un individuo in un altro corpo, trascorso un certo intervallo di tempo dopo la sua morte fisica. Va distinta dalla metempsicosi, letteralmente “passaggio da una mente all’altra”, espressione spesso usata, per errore, al posto di metemsomatosi, letteralmente “passaggio da un corpo all’altro”. È una delle credenze più diffuse in ambienti legati all’Induismo, ad alcune scuole del Buddhismo, al Giainismo, al Sikhismo e di alcune religioni africane, così come di altre filosofie o movimenti religiosi. La maggior parte dei pagani contemporanei crede nella reincarnazione. Nell’antichità occidentale questa credenza era molto diffusa nelle scuole filosofiche, si ricorda lo stesso Platone. Divenne poi fondamentale nel misticismo neoplatonico pagano con Plotino, Giamblico e Proclo.
Talvolta, erroneamente, si ritiene che il concetto di reincarnazione sia accostabile al concetto religioso di rinascita, tuttavia i due concetti sono ben distinti tra loro. In particolare il Buddhismo afferma che non ci sia alcun sé, anima, spirito individuale o atman che si possa reincarnare. Una curiosità: la reincarnazione è riconosciuta principalmente nelle società che praticano o praticavano la cremazione dei defunti poiché era ovvio come lo spirito del defunto dopo la morte si distaccasse dal corpo (e quindi il corpo non aveva alcun valore e poteva per questo essere tranquillamente cremato).
Non vi sono prove scientifiche della reincarnazione. Il direttore della clinica di psichiatria infantile della Virginia University, Jim B.Tucker, psichiatra, ha effettuato uno studio sui bambini che ricordano vite precedenti. Nel suo saggio Life before Life: a scientific investigation of children’s memories of previous life, descrive 40 anni di ricerche, condotte su bambini che affermano di ricordare vite vissute nel recente passato. I bambini provengono da ogni angolo del pianeta e da ogni tipo di famiglie. L’età di questi bambini varia dai 2 ai 6 anni poi tali ricordi vengono dimenticati. I ricercatori una volta raccolte le testimonianze, sono andati personalmente nei posti indicati dai bambini ad incontrare le persone di cui avevano parlato, riscontrando (a loro dire) che avevano detto la verità. I bambini non usano l’espressione “vita precedente” ma talvolta parlano con chiarezza di ciò che è avvenuto in passato. Un bambino turco, per esempio, diede molti dettagli alla sua famiglia sulla città di Istanbul, che si trovava molto lontano dal luogo dove abitava, aggiungendo particolari di parenti avuti in passato con nomi armeni assieme ai relativi indirizzi di casa. Ricordava anche i nomi della moglie e dei figli. Alcuni bambini ricordano le vite precedenti, altri no, ma Tucker ha notato che nel 70% dei casi i bambini ricordano morti avvenute in circostanze non naturali, quali incidenti o episodi traumatici improvvisi. Ci sono momenti in cui memoria ed emozioni sopravvivono, e ciò porta ad ipotizzare che la coscienza non sia un prodotto del cervello bensì dell’Anima, e quindi immortale. L’autore della ricerca, anche se preferisce non usare il termine “reincarnazione” afferma che tale possibilità non possa essere esclusa del tutto. Comunque Tucker preferisce parlare di prove concrete sulla sopravvivenza delle emozioni umane in presenza di specifiche circostanze.
Una credenza assai diffusa tra i buddisti indiani e tibetani -e dopo la diaspora tibetana anche tra i buddisti occidentali- è che prima di raggiungere il ‘nirvana’ (inteso popolarmente come una sorta di paradiso) bisogna passare molte vite, in cui ogni volta, anche non ricordandoci della vita passata, dovremmo migliorarci. La maggior frequenza di casi in cui persone ricordano una vita passata si riscontra in India, ma occorre tenere presente che è il luogo geografico in cui tale credenza è più diffusa e più antica.
Cameron, il bambino che visse due volte ( VIDEO Documentario )
L’ Ipnosi Regressiva, è una metodologia psicologica utile per far riaffiorare dall’inconscio ricordi, eventi o traumi che influenzano la vita presente di un paziente provocando dei problemi psicologici. Il termine regressiva sta a indicare che con questa pratica si cerca di stimolare la capacità della mente umana (capacità regressiva) di tornare indietro e ricordare delle particolari esperienze. L’ipnosi regressiva si pratica impartendo al paziente una serie di suggestioni che consentono di riportare lo stesso paziente a ricordare e a rivivere dei momenti particolari della sua vita che in un certo modo continuano a influenzare (il più delle volte negativamente) la vita attuale della persona in questione.
Questo tipo di procedimento è anche definito sentiero personale perché si percorrono a ritroso tutti i ricordi della vita della persona sotto esame per individuare, come specificato in precedenza, il punto in cui la memoria individua un trauma o comunque un ricordo doloroso. Sebbene sia una tecnica psicologica molto diffusa, l’ipnosi regressiva è considerata dalla maggior parte dei medici una procedura metodologica che crea dei falsi ricordi, permettendo alla mente umana di esprimersi al meglio ma solamente inventando o rielaborando informazioni che già possedeva.
Molti, invece sostengono che la pratica dell’ipnosi regressiva sia molto utile, non solo perché consente di rivivere e approfondire esperienze passate ma anche perché permette di andare oltre: molte infatti sarebbero le persone che avrebbero rivissuto vite precedenti, distanti centinaia o anche migliaia di anni dal momento presente. Inoltre, la pratica dell’ipnosi regressiva viene applicata per tornare a ricordare eventi con un grande impatto emotivo: dolori tremendi, traumi o presunti rapimenti da parte di esseri alieni consentono un’inibizione del ricordo. Infatti il ricordare tali eventi è un fatto spiacevole per il paziente che apparentemente non possiede nessun particolare dell’evento. L’ipnosi regressiva, avrebbe così permesso di ricostruire la difficile faccenda dei coniugi Hill, forse vittime di un rapimento da parte di esseri alieni.”
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La Sindrome degli Antenati (l’influenza del passato):
La Sindrome degli Antenati, è una teoria secondo cui certi avvenimenti si ripetono in modo ciclico all’interno di alcune famiglie. È stata elaborata il secolo scorso dall’ormai novantenne Anne Schutzenberger, esperta di parapsicologia e psicologia trans-generazionale. La studiosa notò che alcune famiglie vivevano eventi identici a diversi anni di distanza ma negli stessi giorni e mesi. Il perché di tutto ciò rimane tuttora ignoto, ma si e cercato di ipotizzare delle soluzioni all’enigma.
Nel suo libro, “La sindrome degli antenati”, la Schutzenberg propone alcune storie, tra cui quella di Natalie, una bambina di 3 anni che disegnava continuamente delle maschere anti-gas che sognava, pur non avendone mai visto alcuna. Natalie un giorno si rivolse hai genitori dicendo <<Questa è la bestia che ogni notte non mi fa dormire>>. I genitori, sconvolti da queste parole, fecero delle ricerche e scoprirono che un prozio della bimba era morto soffocato da dei gas durante la seconda guerra mondiale, nello stesso giorno del compleanno di Natalie, ma molti anni prima.
La Schutzenberg sostiene che alcuni avvenimenti sono tramandati alle generazioni successive in maniera inconscia, e i fenomeni che si verificano possono essere positivi, quali promozioni o matrimoni, e anche negativi, ad esempio morti violente o verità nascoste. E’ plausibile che vengano tramandati anche traumi, paure e atteggiamenti. Una possibile risposta potrebbe essere che doveri e impegni che i nostri avi non sono riusciti a portare a termine, fenomeni difficili da accettare, come malattie o morti improvvise, si ripetano all’infinito fino a che non vi si è posto rimedio.
Alcuni hanno ricollegato la sindrome da anniversario all’inconscio collettivo. Il termine, coniato da Jung, rappresenta una specie di contenitore psichico astratto, comune a tutta l’umanità. Una rete di conoscenze che ci collega tutti quanti e si trasmette inconsapevolmente. In esso sono contenuti gli archetipi, cioè simboli e immagini che sono presenti nella nostra mente prima dell’esperienza. Ciò spiegherebbe perché alcuni individui vivano situazioni note, ma che in realtà non hanno mai affrontato. E’ davvero possibile che il nostro destino sia scritto nel DNA?
Ricerche fatte nei comuni riguardo date di nascita e morte, e negli ospedali su operazioni e malattie tendono a confermare la sindrome. Sono troppe le coincidenze per poter essere considerate accidentali, ma non si riesce a cogliere la relazione che c’è tra questi fenomeni e le date in cui essi avvengono. La Schutzenberg, ad esempio, studiò la vita di una famiglia per sette generazioni. Durante le ricerche si rese conto che i suoi membri ebbero sempre degli incidenti durante il primo giorno di scuola, magari in giorni diversi, ma sempre durante il primo giorno di scuola. Perche? Nessuno lo sa. Le malattie però sono ciò che più viene trasmesso ai posteri, ed inoltre è più probabile che queste possano essere trasmesse dal genitore o dal parante al quale si è più legati emotivamente. È solo merito della genetica, o anche la nostra componente inconscia può esserne complice? A questa domanda sta cercando di trovare risposta Maurizio Gasseau, docente di psicologia, che ha continuato il lavoro di ricerca della il lavoro della Schutzenberg. Questa teoria, affascinante e spaventosa, fa sorgere molte domande senza dare risposte certe. È possibile che il passato possa influenzare in maniera cosi drastica le nostre esistenze? E se fosse così, possiamo davvero pensare di essere liberi quando facciamo qualcosa? Forse il modo migliore per scoprire il futuro è quello di guardare gli avvenimenti che sono accaduti hai nostri antenati.
Abbiamo trovato in rete questa storia postata su Yahoo Answers da roasy:
…anche io ieri sera ho visto Voyager… in famiglia abbiamo un caso di una malattia chiamata Lupus eritematoso sistemico che poi ha portato alla nefrite. A questa malattia si sta ancora studiando, perché le cure non la guariscono, ma la tengono solo sotto controllo. Inoltre dura per tutta la vita. Purtroppo i medici non sanno da cosa è causata e alcuni dottori hanno detto che forse è ereditaria. Partendo dai miei familiari, i miei genitori non hanno nulla, i miei zii non hanno nulla, i miei nonni non hanno nulla, i miei bisnonni non avevano avuto nulla. Ma sapete la novità? Mia nonna ricorda chiaramente che sua nonna soffriva di una specie di reumatismi, grandi dolori articolari (così si manifestò l’inizio del lupus), dopo pochi mesi di dolori lancinanti alle articolazioni,COMBINAZIONE, le urine erano scurissime (sintomo della nefrite il sangue nelle urine)… dopo poco morì.
Ora non so se la nonna di mia nonna soffrisse anche lei di lupus, e casualmente il lupus colpì i reni causando la nefrite come la mia attuale parente. Non so se questo è un caso di sindrome degli antenati, fatto sta che per chi conosce il Lupus, è un po’ strano che casualmente colpisca i reni ugualmente in due casi familiari (essendo quasi una malattia rara); sopratutto se la mia attuale parente era stata colpita quando aveva solo 17 anni, come la nonna di mia nonna.
Anne Ancelin Schützenberger (29 marzo 1919) è professore emerito di Psicologia all’Università di Nizza, dove dirige da oltre vent’anni il Laboratorio di psicologia sociale e clinica. È altresì co-fondatrice dell’Associazione Internazionale di Psicoterapia di Gruppo. Allieva di Jacob Levi Moreno e Françoise Dolto, la sua esperienza è nota a livello internazionale soprattutto nell’ambito della psicoterapia di gruppo e dello psicodramma. Ha lavorato al fianco di Margaret Mead, Gregory Bateson e Carl Rogers. Ai suoi studi si deve lo sviluppo della tecnica del genosociogramma: albero genealogico che tiene conto, oltre che dei legami di parentela esistenti, anche del ripetersi di particolari traumi psichici e fisici di generazione in generazione. Il suo lavoro è essenzialmente mirato alla psico-genealogia, alla comunicazione non verbale e ai legami familiari.
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L’Ipnosi (etimologia, storia, pozenzialità, tecniche e applicazioni):
L’ipnosi è un fenomeno psicosomatico che coinvolge cioè sia la dimensione fisica, sia la dimensione psicologica del soggetto. È una condizione particolare di funzionamento dell’individuo che gli consente di influire sulle proprie condizioni sia fisiche, sia psichiche e sia di comportamento. In particolare “oggi sappiamo che l’ipnosi non è altro che la manifestazione plastica dell’immaginazione creativa adeguatamente orientata in una precisa rappresentazione mentale, sia autonomamente (autoipnosi), sia con l’aiuto di un operatore con il quale si è in relazione”. È inoltre opportuno differenziare i termini: “ipnosi” e “ipnotismo” intendendo con “ipnosi” lo stato particolare, psicofisiologico (trance) del soggetto e con “ipnotismo” la metodica e le tecniche impiegate dall’ipnotizzatore per realizzare l’ipnosi. Attraverso l’ipnosi o l’autoipnosi è possibile accedere alla dimensione inconscia ed emotiva del soggetto. In termini scientifici di solito si tende a restringere il campo di definizione dell’ipnosi alla gestione consapevole di tale processo. Attualmente l’ipnosi è impiegata scientificamente in ambito terapeutico (ipnoterapia o meglio, ipnositerapia) e nella ricerca clinica.
Il termine “ipnosi” (dal greco “hypnos”, sonno) fu introdotto da James Braid nella prima metà del 1800 per le analogie che a quel tempo sembravano esserci fra le manifestazioni del sonno fisiologico e quelle che si avevano in quella condizione particolare che si pensava creata daimagnetizzatori. Oggi sappiamo che il sonno non ha nulla a che fare con l’ipnosi. Il termine “ipnosi” non è certo quello più adeguato per sintetizzare e descrivere quanto avviene in quella condizione particolare di funzionamento dell’organismo umano detta ipnosi. In detta condizione sono coinvolti aspetti neuro-psico-fisiologici particolari, una relazione interpersonale, e l’impiego di potenzialità specifiche del soggetto (lo stesso Braid nel 1847 sostituì il termine ipnosi con monoideismo. Diverse sono ancora oggi le teorie e le interpretazioni del fenomeno che si confrontano. In termini neurofisiologici l’ipnosi viene interpretata come condizionamento, apprendimento, inibizione ed eccitazione corticale e in termini psicologici, è interpretata come rapporto interpersonale, come suggestione, come gioco di ruoli, come regressione e come transfert; e alcuni addirittura sostengono che l’ipnosi non esista in quanto per spiegare i fenomeni osservati non è necessario ricorrere al concetto di ipnosi. Tutti punti di vista plausibili e tutti rientranti in ciò che oggi sappiamo essere l’ipnosi. L’ipnosi non è altro che “la manifestazione plastica dell’immaginazione creativa adeguatamente orientata”. Quest’ultima è la definizione fatta propria dal CIICS (Centro Italiano di Ipnosi Clinica e Sperimentale). Con la conoscenza sempre più approfondita del fenomeno, nel tempo, sono stati proposti da autori diversi neologismi sostitutivi del termine “ipnosi”, ma nessuno finora ha avuto fortuna come il vecchio termine. Il concetto che si avvicinava di più a quello che oggi si pensa sia l’ipnosi, è forse quello proposto da A. Romero nel 1975 di “eidosi”, fatto derivare dal greco èidos (aspetto, figura). Un termine più adeguato a definire il fenomeno è certamente geniosi, termine composto da “genio” dal latino genius, sanscrito g’ânya (“forza naturale”, dalla radice g’ân: generare, produrre), e dal suffisso –osi che aggiunto a sostantivi o a confissi, forma sostantivi che indicano un processo, una condizione. In sintesi con geniosi viene intesa quella forza naturale dell’immaginazione creativa che produce effetto attraverso un dinamismo che può essere consapevolmente gestito.
L’ipnosi intesa come potenzialità della mente umana pare essere impiegata fin dall’antichità; C.Muses (1972) scrive di aver trovato un’ antica registrazione di una seduta ipnotica nella incisione di una stele egiziana risalente al regno di Ramsek Xll della XX Dinastia (circa 3.000 anni fa). Prima delle ricerche di Franz Anton Mesmer (1734 – 1815) tutti i fenomeni che oggi possono essere fatti rientrare in specifiche potenzialità dell’ immaginazione erano considerati isolatamente come manifestazioni divine o diaboliche, oppure il risultato di pratiche magiche. Mesmer formulò la teoria del magnetismo animale (1779), ma tale teoria fu condannata dall’Accademia delle Scienze e dalla Facoltà di Medicina di Parigi (1784). Un’ importante revisione delle teorie di Mesmer fu proposta dal medico inglese J. Braid (1785-1860). J.Braid diede un’interpretazione fisiologica al fenomeno studiato e introdusse il termine ipnosi, derivato dal greco ypnòs sonno.
Gli sviluppi successivi di interpretazione dell’ipnosi si devono ai lavori di A.A. Lièbeault (1823-1904), un medico di Nancy e di H. Bernheim (1837-1919) famoso neurologo parigino che insieme fondarono la Scuola di Nancy. La scuola di Nancy si trovò a dover opporre studi e teorie sull’ipnosi, alla scuola di Jean-Martin Charcot (1825-1893) che operava all’Ospedale della Salpêtrière di Parigi. Mentre per la scuola di Nancy l’ipnosi era un fenomeno psicologico normale e tutti i suoi fenomeni potevano essere spiegati con la suggestione, Jean-Martin_Charcot considerava l’ipnosi un fenomeno patologico, una nevrosi isterica artificiale. Di ipnosi si occupò anche Sigmund Freud (1856–1939) ma la transitorietà dei risultati terapeutici, la laboriosità dei procedimenti ipnotici, la limitazione delle applicazioni terapeutiche e, forse non ultima, l’individuazione da parte sua di “un misterioso elemento” di natura sessuale, spinsero Freud ad abbandonare l’ipnosi e a creare un nuovo metodo: la psicoanalisi. Con la morte diJean-Martin_Charcot (1893) e l’inizio della psicanalisi cominciò per l’ipnosi un periodo di decadenza. Un certo risveglio di interesse per l’ipnosi si ebbe durante la prima guerra mondiale quando con tale metodo si iniziarono a trattare le nevrosi traumatiche di guerra, ma soltanto dopo la seconda guerra mondiale l’atteggiamento della scienza ufficiale nei confronti dell’ipnosi migliorò. In particolare in questo periodo il dottor Milton Erickson (Nevada, 5 Dicembre 1901 – Arizona, 25 Marzo 1980 ), che fu presidente e fondatore della Società Americana di Ipnosi Clinica e membro della Associazione Americana di Psichiatria, della Associazione Americana di Psicologia e della Associazione Americana di Psicopatologia, sviluppò un’ipnoterapia chiamata ipnosi ericksoniana, che permette di comunicare con l’inconscio del paziente. Questo tipo di ipnosi è molto simile ad una normale conversazione ed induce una trance ipnotica nel soggetto (“L`ipnosi non esiste, tutto e` ipnosi”, affermava). Nel 1949 venne fondata negli USA la Society for Clinical and Experimental Hypnosis; e nel 1959 divenne Società internazionale. Nel 1957 venne fondata una seconda società l’American Society of Clinical Hypnosis. In particolare nel 1958 I’American Medical Association riconobbe l’ipnosi come legittimo metodo di cura in medicina e in odontoiatria. Nel 1969 l’American Psycological Association creò una sezione di psicologi che si interessavano prevalentemente di ipnosi. In Inghilterra, nel 1955 la British Medical Association riabilitò ufficialmente l’ipnosi. In Italia la prima Associazione scientifica per lo studio e l’applicazione dell’ipnosi: A.M.I.S.I. (Associazione Medica Italiana per lo Studio dell’ipnosi), si costituì nell’aprile del 1960.
Molte sono le potenzialità dell’ipnosi documentate scientificamente. Il soggetto in ipnosi può modificare la percezione del mondo esterno; può percepire stimoli che in realtà non ci sono e non percepire quelli che sono presenti; può distorcere percezioni di stimoli effettivamente esistenti creando illusioni. In ipnosi è possibile modificare il vissuto sensoriale; il vissuto di schema corporeo e in particolare è possibile un controllo deldolore. Il soggetto in ipnosi può orientare con facilità la propria introspezione nei diversi settori del suo organismo, può ampliare o ridurre lesensazioni che provengono dall’interno del suo corpo, può alterare i parametri fisiologici avvertibili come il battito cardiaco, il ritmo respiratorio, la temperatura cutanea. Con l’ipnosi è possibile entrare nella propria storia e variare i criteri di elaborazione dell’informazione in ingresso; è possibile modificare i significati che il soggetto ha dato in passato alle sue esperienze fruendo delle alternative che possedeva. Si possono ottenere dei cambiamenti nella continuità della memoria (amnesie parziali o totali). È inoltre possibile accentuare la possibilità di ricordare; è possibile che il soggetto ricordi esperienze anche molto remote. I meccanismi psicodinamici regolatori del comportamento sono più accessibili e le resistenze sono più facilmente superate. In ipnosi variano i parametri di valutazione spazio-temporali e la valutazione critica. Le emozioni sono una risposta dell’organismo a momenti dell’esistenza. Mentre nello stato di veglia il controllo volontario delle emozioni pare essere un compito particolarmente arduo, in ipnosi queste possono essere modificate sia nella direzione dell’accentuazione sia nella direzione opposta della riduzione; e vi è inoltre la possibilità di passare repentinamente da un’emozione all’altra in relazione ai suggerimenti che vengono impartiti dall’ipnotista. Attraverso l’ipnosi il soggetto può apprendere a smorzare la sua risonanza emotiva. Il senso dell’Io può essere distaccato da un’ampia varietà di tipo di informazioni e situazioni ai quali è normalmente applicato. In un soggetto in regressione d’età l’emergere di un ricordo con tonalità affettiva particolarmente coinvolgente può essere vissuto non come esperienza propria ma semplicemente come informazione neutra attinta dalla memoria. Il senso dell’Io può anche essere distaccato dal proprio corpo come avviene per la non percezione del dolore. In ipnosi esiste la possibilità di alterare la qualità e la quantità del controllo della muscolatura volontaria, della motilità e in particolare di modificare alcune modalità di funzionare del nostro organismo, credute al di fuori di ogni controllo volontario, quali quelle del sistema neurovegetativo, del sistema neuroendocrino e del sistema immunitario. Tutte le possibilità di comportamento elencate non possono essere ovviamente pensate come realizzabili allo stesso livello da tutti i soggetti, almeno immediatamente, in quanto sono coinvolti predisposizione genetica e tempi di apprendimento.
Le tecniche di gestione dell’ipnotismo, specialmente in ambito terapeutico, sono modificate nel tempo in relazione alla maggior conoscenza e ai diversi criteri di interpretazione del fenomeno. Si è transitati dai “passi” di F. A. Mesmer, dalle tecniche che cercavano di indurre rilassamento e sonno, dalle suggestioni dirette alla eliminazione dei sintomi, per giungere con Milton Erickson e altri studiosi alle elaborate tecniche di visualizzazioni guidate e di regressioni di età orientate alla definizione e rielaborazione delle dinamiche inconsce per finalità psicoterapeutiche. Le tecniche elaborate nel tempo sono state verbali, gestuali, attive, passive, di tensione, di rilassamento, dirette, indirette, mascherate, esplicite, accompagnate da comunicazioni visive, tattili, sonore e posturali. Oggi che l’ipnosi non è più solo interpretata come uno stato rigido da ricercare (trance) per poi inserire suggestioni, ma come un modo di funzionare dinamico caratterizzato dall’abilità del soggetto a realizzare ideoplasie(monoideismi plastici) attraverso l’orientamento adeguato della propria rappresentazione mentale, si sono ben definiti i criteri per l’elaborazione di tecniche efficaci. È necessario che l’ipnotista abbia ben chiaro e ben definito l’obiettivo da raggiungere, ossia qual è l’idea che deve esprimersi plasticamente, qual è il comportamento da realizzare e qual è la rappresentazione mentale che li definisce in maniera adeguata. L’idea da realizzare deve essere fatta propria dal soggetto con cui si opera perché possa attivarsi il dinamismo atteso. Perché la rappresentazione mentale possa essere espressa in termini fisici e/o di comportamento deve essere “carica della valenza giusta” (credenza, motivazione, aspettative, orientamento e attenzione). Un ulteriore accorgimento, è che, ovviamente, l’azione definita dall’obiettivo deve essere di possibile realizzazione per il soggetto in virtù della sua costituzione psicofisica e delle sue potenzialità di apprendimento.
Le fonti più remote, nelle diverse culture, che fanno pensare all’uso dell’ipnosi in ambito terapeutico illustrano tale impiego prevalentemente rivolto al controllo del dolore, quindi come metodica analgesica. Da quando l’ipnosi è maggiormente conosciuta come modalità particolare del funzionare umano, che può essere tecnicamente controllata da esperti professionisti, è utilizzata in ambito extraterapeutico nello spettacolo, nello sport e nella ricerca, e in ambito terapeutico nelle diverse specializzazioni della medicina, della psicologia clinica e dell’odontoiatria. Viene sempre più utilizzata con buoni risultati nel controllo delle emozioni (disturbi d’ansia, attacchi di panico, rabbie, tristezze, e delle dipendenze (alcol, fumo, droghe), attraverso le varie forme di psicoterapia e ipnositerapia. È impiegata in ostetricia nella preparazione e nella conduzione del parto, inodontoiatria nelle varie fobie da studio dentistico e come analgesico, in dermatologia nelle diverse forme di malattie psicosomatiche, e negli ultimi anni anche in oncologia come strumento del sostegno psicologico (quando è impiegata come tecnica di rilassamento) e nella eliminazione degli effetti collaterali alle diverse terapie quali la nausea, il vomito, l’eccessiva stanchezza e ovviamente nella gestione delle diverse emozioni negative.
L’utilizzo dell’ipnosi nella terapia è detta ipnoterapia, o meglio “ipnositerapia” (per evitare confusioni con la terapia del sonno) ed è un lavoro clinico, ossia si tratta di impiegare lo stato e le dinamiche dell’ipnosi in una strategia terapeutica specifica delle diverse specializzazioni dellamedicina e delle diverse scuole di psicoterapia. Essa può essere applicata solo da professionisti abilitati (medici, psicologi e odontoiatri). NegliUSA e nel Regno Unito vi è una specializzazione dedicata esclusivamente all’ipnoterapia. In Italia ci sono delle scuole di formazione post laurea in ipnosi che rilasciano attestati di ipnotista e scuole di specializzazione in psicoterapia ipnotica. L’ipnositerapia attraverso le sue svariate metodiche, che spaziano dall’intervento diretto sul sintomo a sofisticate strategie di ristrutturazione di credenze e di personalità, può essere utilizzata da molti specialisti nel contesto delle loro specifiche competenze. Psicoterapeuti e psichiatri possono impiegare l’ipnositerapia per intervenire nelle diverse forme di nevrosi, nei disturbi somatoformi, nelle diverse dipendenze (alcol, tabacco, droga), nei disturbi sessuali di origine psicogena, nei disturbi alimentari. Gli anestesisti nel controllo del dolore, nella preparazione agli interventi chirurgici e nel post operatorio. Gli ostetrici e i ginecologi nella preparazione e nella conduzione del parto e nei disturbi ginecologici psicosomatici. Gli odontoiatri nel controllo delle fobie, delle ansie e del dolore (ipnodontria). Gli oncologi possono impiegare l’ipnositerapia nelle diverse fasi della malattia, in alcuni momenti sarà ipnositerapia di chiarificazione e di ristrutturazione psicologica di credenze false, in altri momenti sarà ipnositerapia orientata alla gestione delle emozioni, alla realizzazione della calma e al potenziamento del sistema immunitario, in altri momenti ancora sarà ipnositerapia di incoraggiamento e orientata al controllo del dolore fisico. Gli studi in psicobiologia ed in psiconeuroendocrinoimmunologia hanno dimostrato che è possibile stimolare la risposta immunitaria per la cura di patologie della pelle e di allergie respiratorie. Ricerche scientifiche dimostrano una risposta immunologica anche nei tumori, con l’aumento dei linfociti T e NK, purtroppo in via del tutto temporanea, pertanto inutile ai fini terapeutici. La difficoltà dell’ipnosi nel campo della PNEI è stata determinata principalmente dalla difficile standardizzazione dei risultati, e da una ricerca con dei criteri applicativi non rigidissimi. Nella fattispecie, i risultati ottenuti si differenziano sia in base alla suggestionabilità del soggetto, che alle capacità del terapeuta. Ciò comporta che due campioni differenti in termini di suggestionabilità, e due terapeuti differenti in termini di tecnica di induzione e carisma/capacità intrinseche comunicative-relazionali, potrebbero produrre risultati molto differenti.
L’autoipnosi è la realizzazione dello stato ipnotico su se stessi. In ambito clinico l’ipnotista impartisce al paziente delle istruzioni particolari affinché apprenda a entrare nello stato ipnotico autonomamente. All’inizio dell’apprendimento, per agevolare la realizzazione della trance, possono essere utili delle audiocassette con la voce registrata del terapeuta. Con l’allenamento e l’esperienza migliora sempre più l’abilità del soggetto a realizzare l’ipnosi. L’autoipnosi può essere utilizzata per gli stessi obiettivi per i quali è impiegata l’ipnosi eterodiretta. Correzione di comportamenti inadeguati (mantenere una dieta, smettere di fumare ecc.), controllare emozioni (ansie varie), realizzare stati di distensione, terapia regressiva, etc..
Il problema dell’ipermnesia ottenuta tramite ipnosi, è un problema dibattuto da molto tempo. L’ipnosi è uno strumento in grado di ottenere dei risultati spettacolari, poco credibili ai non addetti ai lavori. È possibile ad esempio recuperare ricordi precocissimi risalenti alle esperienze in utero e addirittura memorie che alcuni ricercatori fanno risalire ad esperienze di “vite passate”. Sulle regressioni a vite passate, alle quali si accederebbe attraverso un percorso ipnotico a ritroso A.Pacciolla in un suo libro afferma che alcuni ricordi affascinanti delle vite trascorse, in realtà sono solo il frutto della fantasia del soggetto in quanto, dopo aver cercato in biblioteche e in antichi documenti non ha trovato corrispondenza fra i racconti dei pazienti e i documenti rilevati né di luoghi, né di nomi, né di famiglie, né di abitazioni con i fatti raccontati. Di opposto parere sono altri ricercatori quali Ian Stevenson (1966), Brian Weiss, (1997) e Angelo Bona (2001), che hanno portato evidenze opposte. Gli avvenimenti che un soggetto è sollecitato a ricordare attraverso metodiche di regressione d’età in ipnosi è espressione di quanto è registrato come proprio vissuto e ciò non è detto che coincida con fatti “oggettivi”, ma può essere espressione delle sue elaborazioni conscie e inconsce; pertanto in ipnosi un soggetto può ricordare degli avvenimenti che sono talvolta reali e talvolta frutto della sua fantasia anche se dal soggetto sono affermati come reali. Per tale ragione sul piano giuridico le testimonianze ottenute tramite ipnosi non hanno valore, e per la stessa ragione potrebbero essere di fantasia i ricordi ottenuti con l’ipnosi di rapimenti da parte di extraterrestri e esperienze di vite passate. In Svezia è stato creato un reality in cui sono stati sottoposti ad ipnosi da un ipnoterapeuta di fama alcune persone comuni con lo scopo di verificare se le esperienze delle vite passate vissute dai pazienti sottoposti ad ipnosi fossero immaginarie o reali cercando di verificare quanto più possibile nelle zone “vissute in altre vite” e se c’erano anche altri dati verificabili. Spesso sono state riscontrate verità sorprendenti con corrispondenze esatte di vecchie chiese e con nomi (marito/sposa) verificati su vecchi registri. La trasmissione/reality si intitolava “Backtrack Sweden” ed è stata tradotta anche in Italiano dall’emittente satellitare Sky (“Backtrack Sweden – Tracce dal passato”).
Fra i pregiudizi diffusi sull’ipnosi (da cui derivano le riserve di alcuni pazienti) vi è quello secondo cui essa consentirebbe il controllo della mente e la perdita di coscienza. Questa idea, che corrisponde all’immagine dell’ipnosi riportata più frequentemente nella narrativa, nel cinema, nella fiction, e soprattutto in televisione, è fuorviante. Più corretto è dire che l’ipnosi fa vivere al soggetto un’esperienza immaginaria o allucinatoria, senza tuttavia modificarne la personalità (e quindi, per esempio, la volontà o i principi morali). Giuridicamente sono contemplati i reati con l’ipnosi, intendendo con ciò quei casi in cui si induca con la suggestione un soggetto a compiere un illecito. Esempio: un ipnotista suggestiona un individuo in modo da fargli credere che egli è nel proprio letto armato di un coltello, e che la persona che ha di fronte è un malvivente che ha appena ucciso la sua famiglia e ora vuole uccidere anche lui. La responsabilità di un’azione simile è di chi ha indotto la suggestione.
La fenomenologia ipnotica contribuisce non poco alla conoscenza dello strumento cervello che abbiamo a disposizione. Essa spesso fa dispetti alla Medicina, realizzando fenomeni per questa inspiegabili. Nello stesso tempo permette di gettare lumi nelle altre branche del sapere per reinterpretare, correggere o rigettare credenze superate. Innanzitutto l’ipnosi scopre che i due emisferi cerebrali non ripetono pedissequamente le stesse funzioni psichiche, ma ciascuno ha le sue proprie. Senza questo non sarebbe esistita né la stessa ipnosi (che realizza i fenomeni solo dopo avere messo a riposo l’emisfero cerebrale dominante) e né il conseguente uso terapeutico. In trance si lavora servendosi dell’esperienza del soggetto. Questa risulta essere registrata nella psiche come parola nell’emisfero dominante e come emozione nell’altro. Il terapeuta usando la parola richiama l’emozione annessa e utilizza l’energia psicodinamica per realizzare il contenuto delle suggestioni secondo il principio del monoideismo ideoplastico, oppure la riduce mediante catarsi per eliminare i suoi effetti patologici. Il fenomeno del potenziamento della memoria permette di far affiorare dai meandri delle circonvoluzioni cerebrali (l’inconscio) ricordi di ogni tipo, di cui tanti si riferiscono ad esperienze non fatte direttamente dal soggetto. Siccome la scienza ammette che per es. gli istinti sono trasmessi geneticamente, si può ammettere che altrettanto geneticamente si riceve tutta l’esperienza dei nostri avi. Ciò spazza via la credenza della metempsicosi e delle vite precedenti vissute e il famoso mondo iperuranio di Platone; getta luce sullo ”In interiore hominis habitat veritas” di Sant’Agostino d’Ippona e su quei filosofi che attribuivano la forma delle cose alla mente di Dio. I suddetti ricordi remoti affiorano come immagini, visualizzazioni od allucinazioni (tutte site nell’emisfero destro). Sia quelle dei sogni che quelle riferite in ipnosi sono registrazioni di esperienze vere (fatte dal soggetto o da chi gliele ha trasmesse). La fantasia usa spezzoni di immagini assemblate dalla funzione creativa della persona. I sogni freudiani pescano nell’esperienza di ogni tempo, presente nella memoria. Quando in terapia ipnotica si usano immagini (anche costruite) come suggestioni, queste realizzano il loro contenuto reale in periferia secondo il principio del monoideismo ideoplastico, per cui si può affermare che non esistono parole o immagini astratte (flatus vocis di Roscellino) ma ognuna di esse rappresenta esperienze vere. Da ciò la psiconeurolinguistica ha dedotto che lavorare con la parola equivale a lavorare sulla realtà così come lavorare sulla mappa equivale a lavorare sul territorio. Questa concezione porta a rivedere che cosa è scienza e cosa non lo è. Il campo della scienza si allarga a ciò che non può essere sperimentato con i sensi e gli strumenti che li aiutano. Sparisce o quasi la metafisica, l’epistemologia sostituisce la verificazione (quando impossibile) con la falsificazione di Popper. Adottando il metodo ipotetico-deduttivo si possono impostare e dimostrare validamente molte teorie scientifiche. Gli elementi della tavola di Mendeleev furono prima ipotizzati e poi puntualmente trovati al loro posto. Lo stesso Fermi ipotizzò l’esistenza del neutrino venti anni prima che fosse scoperto. Oggi i medici dell’evidenza negano proprio la fenomenologia ipnotica perché disdegnano il metodo ipotetico-deduttivo utilizzato dai fisici, scienziati per eccellenza, per interpretarla. I filosofi nel tempo si sono divisi il cervello: gli idealisti hanno usato l’emisfero destro, gli empiristi quello sinistro. I teologi infine possono intuire l’esistenza di Dio e farla oggetto di fede con l’emisfero destro, ma quando espongono con la logica dell’emisfero sinistro quanto hanno intuito non convincono nessuno o quasi perché l’emisfero sinistro semina dubbio.
Nel campo della fenomenologia ipnotica la psicobiologia è anche la scienza che si interessa dei rapporti tra psiche e soma mettendo in evidenza vie e mezzi attraverso cui essi si realizzano. Partendo dal dato di fatto che l’emisfero cerebrale sinistro è l’emisfero della logica ed il destro quello dell’emozione, l’esperienza nell’emisfero sinistro è registrata preminentemente come parola, nell’emisfero destro è conservata come emozione. Ciò viene descritto ed illustrato da R. Shone nelle pagine 31-33 del libro “La tecnica dell’autoipnosi” – Astrolabio – 1994 – riportando un esperimento fatto su un soggetto che aveva subìto la resezione dei peduncoli cerebrali del corpo calloso. Il nostro psichismo dispone di una energia vitale complessiva da cui originano le cariche psicodinamiche che esplicano, secondo la loro natura, una azione favorevole o meno sull’organismo. Le parole, le idee, le immagini, le emozioni, man mano che entrano a far parte del vissuto e quindi dell’esperienza della persona, provocano una eccitazione psichica ed acquisiscono una carica psicodinamica che ne ricalca il significato. Tale carica può essere utilizzata, secondo il principio dei riflessi condizionati, usando come stimolo suggestivo proprio la parola o l’immagine o l’emozione, che l’hanno realizzata. L’idea di benessere utilizza l’energia insita in essa per realizzare la sensazione di benessere. L’idea di paura utilizza la sua energia per realizzare una sindrome fobica. L’idea di levitazione e di trascinamento di un braccio in alto determina il suo alleggerimento e sollevamento verso l’alto. E così può dirsi per ciascuna altra idea o immagine o parola suggestiva. Nel momento in cui una persona richiama alla sua mente una idea e la mantiene per un po’ di tempo, questa idea realizza il suo contenuto (ideoplasia). È una legge dell’interazione mente-corpo trasformare in azione le cariche contenute nelle idee. Se si sottopone all’attenzione di una persona in trance una idea che richiama una carica psicodinamica da cui ci si aspetta una determinata azione, questa, dopo un tempo di latenza ragionevole, si realizza, come ci si attendeva. Le parole, le idee, le immagini richiamano e mobilitano nel cervello psichico le energie che ricalcano, le quali, a loro volta, danno origine ad eventi a catena per evidenziare un’azione a livello periferico. Durante lo stato ipnotico si può influire su tutte le funzioni dell’organismo abolendole, inibendole, potenziandole o normalizzandole. Le vie di cui la mente si serve per influire sul somatico, sul viscerale o sull’umorale sono le stesse di cui si serve lo stress per provocare i suoi effetti. Dal punto di vista neurofisiologico, la mente comunica col corpo principalmente attraverso il sistema ipotalamo-limbico, centro di affluenza di stimoli provenienti dal talamo e quindi dalla corteccia, dal sistema limbico e dal sistema reticolare. L’ipotalamo poi funziona come un trasformatore di energia perché trasforma l’informazione neuronale (fornita di energia psichica) in informazione neurormonale che mediante messaggeri raggiunge la periferia. Tutte le strutture sono collegate tra loro sia mediante fibre nervose che mediante ormoni, neuropeptidi, neurotrasmettitori, che interagiscono tra loro mediante uno sviluppato comportamento a feedback. Il funzionamento del sistema nervoso autonomo porta in periferia l’informazione in maniera digitale (mentre quella di ormoni, peptidi e mediatori è di tipo analogico). Attraverso queste vie si possono ottenere risultati terapeutici significativi. Gli esperimenti condotti in ipnosi tengono conto delle conoscenze scientifiche attuali, in particolar modo di quelle psicobiologiche che riguardano i mediatori che portano i messaggi in periferia. Ciò permette di reinterpretare tutta la fenomenologia e le relative risposte terapeutiche, per renderle utilizzabili dalla classe medica.