Perché il vinile è il modo migliore di ascoltare la musica
Poco tempo fa ho ricomprato un giradischi, elettrodomestico che mancava in casa mia da un po’ di tempo, soprattutto per mancanza di spazio. Sono andato subito a ricercare i vinili che avevo e a chiedermi dove fossero quelli che non trovavo più, rapito di nuovo dalla magia di quella vetusta invenzione. Oggi che il CD è andato praticamente in pensione e che l’hype per il ritorno della musicassetta sembra essersi spento, di fatto l’unico modo per possedere fisicamente la musica è quello di comprare dischi in vinile. Ci sono ricascato dentro con tutti i piedi e vale la pena di spiegare perché.
Non è vero che è il supporto che suona meglio. La qualità è inferiore a certi file da audiofili, ma il disco ha un suono suo, morbido sui bassi, dolce sui medi e aperto sugli alti che spazza via anni e anni di massimizzazione e di compressione selvaggia volta a mettere tutte le frequenze in primo piano. La dinamica nella musica è tutto e negli ultimi anni è stata la più grande vittima dei supporti digitali. Posando la puntina sui solchi, il vinile ti obbliga ad un rispetto per la musica che altrimenti non avresti e proprio per la delicatezza di questa manovra, non puoi certo skippare i pezzi come fai selvaggiamente con gli mp3 o con lo streaming. È pieno di segni misteriosi, di scritte incise alla fine del lato del vinile, che da sole mettono in moto la fantasia. Per esempio, sull’edizione Virgin del 1987 di “Affinità – divergenze fra il compagno Togliatti e noi” dei CCCP, dopo i solchi musicali ci sono due frasi incise con mano malferma. Sul lato A “Vicini per questioni di cuore…” e sul lato B “Se così si può dire.” Chicca che da sola vale l’acquisto.
Ogni singolo granello di polvere influisce sul la musica, la cambia, rendendo l’ascolto ogni volta unico. Quando poi il disco è troppo sporco, te ne devi prendere cura. È l’equivalente audio del cinema in pellicola. In una parola, è magico. Anche quando salta, crea il paradosso di farti interagire fisicamente col suono, che è astratto, chiedendoti attenzione. Allora provi a mettere una moneta sulla puntina, ne cambi il bilanciamento in modo da assicurarti l’ascolto del pezzo. È un equilibrio fragilissimo, che dura da quando è stata inventata la riproduzione del suono. Ti senti parte di una meraviglia senza tempo.
Costa. Se ti sembra una nota negativa, dovresti pensarci due volte. Da quando fruiamo più o meno liberamente di tutta la discografia di un artista con un click, la musica è diventata (non solo ma anche) database, statistica, passatempo. Quando paghi la musica invece gli dai un plusvalore che ti obbliga ad approcciarti ad essa in maniera differente, non più come a qualcosa di scontato, ma che vale un prezzo, che costa una rinuncia. Ti porta ad una scelta (perché non puoi comprare tutto), dunque ti porta implicitamente a pensare.
Non è certo cosa da poco. Quando poi vai ad ascoltare un disco per il quale hai speso dei soldi, mantieni un ‘attenzione che solitamente non hai verso una playlist di Spotify o un album scaricato. Ecco il vero motivo per il quale ci ricordiamo tutto della musica ascoltata anni fa: mica perché era più bella, semplicemente avevamo meno dischi e li consumavamo. La copertina, il retrocopertina, la foto gigante nel mezzo, le illustrazioni, i testi, tutto è della giusta grandezza per poterne godere a pieno. Non più un adattamento, ma una copia dell’originale e alcune sono vere e proprie opere d’arte visiva. Altre, addirittura, ti fanno sentire vicino alla band, quasi da poterla toccare, come accadde con il primo LP dei Joy Division, “An ideal for living” (1977), che consisteva in un poster che diventava copertina, piegata in quattro dai membri della band. Sì, alcuni fortunati hanno in casa un disco col DNA di Ian Curtis sopra. Ben più interessante di un autografo.
Suona anche senza volume, e lì sta davvero il prodigio: capisci che la puntina crea il suono anche senza amplificazione, solo girando sui solchi. Avvicini le orecchie al disco, senti quel rumore simile ad un grammofono lontano e ti rendi conto che la musica nasce da lì, da un posto fisico. Gli dà forma. Valorizza le singole tracce perché puoi vederle, graficamente, scolpite sui solchi. Ne intuisci la durata e addirittura riesci a capire se una canzone parte lenta per poi far entrare a poco a poco gli strumenti. Puoi guardare la musica prima di ascoltarla.
Vale. A differenza del CD o della musicassetta, un vinile avrà sempre una quotazione in termini monetari (se tenuto bene) e le diverse edizioni presenti sul mercato ti fanno fare lunghe ricerche su Discogs per capire che tipo di gioiello hai in mano, se luccica e basta o se è davvero un diamante, magari in edizione limitata. Per non parlare dei vinili colorati, trasparenti, dei picture disc, dei sagomati, di quelli che hanno un lato scolpito, dei vinili preparati. Sculture d’arte contemporanea che suonano. Difficile farlo con un file.
Piace. Non esiste persona al mondo che non si emozioni davanti ad un disco in vinile. Può cambiare l’esito di una serata come, una volta, potevano solo i mixtape fatti su cassetta ad una persona speciale. Puoi avere l’impianto stereo più tecnologico del mondo, l’iPod più capiente, niente può battere la mossa di mettere fisicamente un disco sul piatto, di ascoltare il fruscio e di farlo partire.
Per me i dischi sono sacri. Si tengono come le cose preziose, non si vendono, non si scambiano, non si dovrebbero nemmeno prestare. Lo so bene perché quando ero piccolo comprare un disco era una cosa normale, c’erano i negozi che li vendevano e che resistono. Ascoltando vari generi, da giovane squattrinato, spesso scambiavo i dischi che non ascoltavo più con altri nuovi. Oggi mi mangerei le mani, e so che non sono il solo. Mi sono trovato a ricomprare ristampe di vinili che una volta avevo in prima edizione, con somma mestizia.